In un’intervista esclusiva a Vanity Fair, Marco D’amore racconta come è nata la sua prima regia per il cinema, «L’immortale», e la pazza idea di riportare in scena il controverso personaggio alla base del clamoroso successo di «Gomorra».
Ecco un estratto dell’intervista:
Passato: «All’Hotel Brasil di Milano, durante la mia tournée di debutto a 18 anni, il cesso era nel corridoio. La stanza costava 30 euro a notte quando al principio del mese, nel portafogli, spesso non ne contavo più di 50. Non vengo da una famiglia ricca, ho fatto una gavetta tosta e nella vita mi sono sudato tutto. Nel tempo, memore
dell’apologo immaginato da Nanni Moretti sulle spallucce vittimiste dei tennisti italiani invariabilmente sconfitti a causa dell’arbitro, del vento, della sfortuna o del net, ho imparato a non affibbiare agli altri la colpa di quel che di bello non succedeva a me. L’ho capito tardi, ma la responsabilità di quel che ci accade è soprattutto nostra».
Presente: «Ho appena finito il mio primo film da regista per il cinema nonostante anche gli amici più cari non facessero altro che dirmi: “Chi te lo fa fare?”, “ti complicherai la vita”, “ma perché?”». Futuro: «Credo che ognuno di noi debba fare i conti con la propria natura. Non mi sono mai sentito attore tout court, non ho mai sognato di interpretare quel ruolo o quel personaggio e credo che scrittura, produzione e regia mi restituiscano la possibilità di fare quel che mi appassiona di più: progettare una storia, raccontarla a qualcuno, mettermi a disposizione per parlare della nostra epoca alle persone della nostra epoca».
Marco D’Amore è un poeta nei panni di un soldato. Nella vita, dove indossata l’armatura e assecondata l’indole − «Sono un competitivo senza redenzione, non mi va di perdere neanche a briscola» − ha portato a termine la missione di confezionare L’immortale: «Senza tardare di un solo giorno né costringere la troupe agli straordinari». E nella finzione, nei panni di Ciro Di Marzio, affondato al largo di Napoli da un colpo di pistola, dato per morto alla fine della terza stagione di Gomorra e ora risorto allo scopo di disegnare un film in cui cupezza e destino, azione e reazione, fughe, solitudini, spettacolo, quadro d’ambiente, intimità, conti da regolare e ammanchi sentimentali concorrono a dipingere il più sorprendente degli esordi. «Per mesi lunghissimi, ritmati da un’unica litanìa, le persone che incontravo mi chiedevano una cosa sola: “Dimmi che Ciro è vivo”, “dimmi che Ciro torna”».
Ed è tornato.
«Sapevo che sarebbe accaduto, ma non lo potevo rivelare. Questo progetto è premeditato, non c’è niente di casuale. Sapevamo del ritorno di Ciro prima ancora di quel famoso finale che chiudeva la terza stagione di Gomorra. Come non è casuale che la quarta stagione della serie tv sia attraversata dal lutto. Il personaggio torna in
scena adesso, ma l’idea parte da lontano».
Da dove?
«Dall’ossessione di raccontare. E dalla possibilità di sperimentare un linguaggio e creare un inedito crossover tra cinema e televisione, un ponte, un anello di congiunzione narrativo tra la quarta stagione di Gomorra appena tramontata e la quinta. L’immortale non è un episodio a se stante né uno spin-off senz’anima, ma un film che ha una sua indipendenza. La sfida sarà portare in sala tutti quelli che per varie ragioni Gomorra non l’hanno mai visto».
Come pensa di farcela?
«Con la profondità e la vertigine di una storia che partendo dalla povertà della Napoli scossa dalla guerra del contrabbando dei primi anni ’80 arriva fino alle nuove rotte della criminalità e del narcotraffico emigrate nell’Est Europa. In mezzo a tutto questo, c’è la parabola di Ciro Di Marzio, che qui e lì, in Gomorra, aveva seminato una serie di riferimenti personali che con L’immortale ho provato a trasformare in biografia».
Quasi l’educazione sentimentale di un criminale.
«Ma senza indulgenze né compiacimenti. Prima di arrivare alla stesura definitiva abbiamo scritto quattro soggetti che alla fine sono rimasti nel cassetto. Ciro aveva infinite possibilità di sviluppo. È nato al principio di novembre del 1980. Quando il terremoto devasta l’Irpinia e non ha pietà della Napoli fatiscente dei palazzi di via Stadera e dei suoi abitanti, ha solo 21 giorni».
Resta orfano.
«Nella terza stagione di Gomorra Genny domanda retoricamente a Sangue Blu se sappia il motivo per il quale a Ciro hanno dato il soprannome di “immortale” e poi glielo spiega: “Pecché teneva ventune juorne quanno vennette ’o terremoto c’atterrà ’a madre e ’o padre. Pienze, dint’a nu palazzo ’e trenta persone, isso è ll’unico ca è rrimasto vivo”. Il terremoto, nella prima puntata di Gomorra, avrebbe dovuto esserci. La scena era stata già scritta. Non venne mai girata, ma io me lo ricordavo bene».
L’immortale parte da lì.
«Da lì in fondo sono partito anche io. In quel novembre 1980 mia madre fuggiva per le scale di un condominio di Napoli mentre ogni cosa le crollava intorno. Sarei nato di lì a pochi mesi. Mia madre, a differenza di quella di Ciro, si salvò. Al mio personaggio invece quella perdita spalanca un domani diverso».
Quale domani?
«Il domani di un uomo che dentro ha una ferita incancellabile e rincorre disperatamente un sentimento. Tenta in ogni modo di essere amato, prova a trovare qualcuno che gli voglia davvero bene. E al posto dell’amore, incontrando solo delusioni e tradimenti, reagisce in modo feroce, atroce, ingiustificabile. Ciro è il camorrista che uccide, ma anche quello che piange e si dispera: il criminale capace di picchi sentimentali ed emotivi che ti smuovono qualcosa e ti spingono, in un continuo conflitto tra adesione e ripulsa, ad amarlo o a odiarlo».
Che Ciro troveremo ne L’immortale?
«Un Ciro che a guardarlo bene, non riconosco neanche io. È cambiato, trasformato, quasi trasfigurato».
Si diceva che la decisione di farlo scomparire dal quadro di Gomorra fosse sua.
«È stata mia, in effetti. Avevo deciso di uscire dalla serie perché sentivo che non avevo più niente da dare e ne ho discusso a lungo con i vertici di Sky. Poi, al’improvviso, ho visto la possibilità di un altro percorso. Per esercizio personale, un esercizio che mi aiuta sempre nell’interpretazione dei personaggi, tengo un diario in cui lo interrogo per costruire storie parallele che non di rado mi portano molto lontano da quello che devo poi mettere in scena sul set. L’immortale fa parte di una di queste infinite derivazioni, ma per decidere di mettere in mare la barca, oltre al sostegno fondamentale di Nicola Maccanico e Riccardo Tozzi, complici fraterni di un’avventura apparentemente scriteriata, sono stati necessari tempo e riflessione».
Che tipo di dubbi?
«Principalmente etici. Far risorgere Ciro potrebbe apparire immorale, ingiusto, inopportuno. Così ho rivolto all’idea di riportare in vita Ciro gli interrogativi più ampi per avere una risposta a ogni domanda. La prima tra tutte, una domanda lecita: “Perché sostenete sempre che la morte in Gomorra sia la massima pena per chi sceglie di delinquere e poi cambiate prospettiva?”».
E che risposta si è dato?
«Che in quattro stagioni di Gomorra, funerale più funerale meno, tra vittime innocenti e vittime consapevoli del rischio che si assumevano, sono morte quasi 1.500 persone. Per molte di loro, la morte rappresenta comunque una pacificazione. L’abbandono di un’esistenza misera in cui un altrove, che sia anche la terra fresca, appare più consolante dei patimenti. Ecco, è questa tregua definitiva, che a Ciro, dannato tra i dannati, viene negata. Per Ciro non c’è pacificazione possibile e l’immortalità è una condanna. La sua pena è scontare la vita in terra, non avere riparo né salvezza dai fantasmi che lo rincorrono e dal male provocato. Dall’incapacità da un lato e dall’impossibilità per altri versi di cambiare rotta a un percorso stabilito altrove».