Nel 1968, Martin Luther King era in continuo movimento, sia in senso letterale, spostandosi da una città all’altra degli Stati Uniti, sia in senso figurato, tenendosi impegnato con l’organizzazione di campagne sociali, marce e discorsi. Il più celebre di tutti, quello del cosiddetto «I have a dream», era stato pronunciato cinque anni prima a Washington, in occasione della marcia per i diritti civili organizzata per il centenario del Proclama sull’Emancipazione firmato da Abraham Lincoln. Le sue furono le parole che più di ogni altro discorso, orazione o sermone hanno costruito la retorica del sogno, e non stiamo certo parlando di un sogno qualunque, ma di quello del personaggio pubblico e dell’uomo politico, ma prima ancora dell’Uomo e basta, che esprime in un momento solo l’ideale di speranza, di riscatto, di un futuro migliore per il mondo intero. Lo stesso sogno che animava le parole di tanti altri uomini che, prima e dopo di lui, hanno tentato di puntare al cuore di chiunque li ascoltasse, cercando di raggiungere con la loro voce anche gli angoli più remoti del mondo, un po’ come già nel 1930 Gandhi rinnovava gli animi dei suoi connazionali con una nuova fede per il futuro. E Martin Luther King sta alla lotta per l’emancipazione dei neri d’America proprio come l’altro sta al movimento per l’indipendenza dell’India; il principio che li guidava era il medesimo, e cioè la convinzione che la nostra voce, il dono più grande che l’uomo abbia ricevuto alla nascita, fosse più potente di tanti atti di violenza.
L. King avrebbe fatto tanta strada da allora, portando il popolo nero statunitense a camminare con lui nelle sue lunghe marce verso anni migliori, in cui il disprezzo, il razzismo, l’indifferenza fossero soltanto un ricordo. L’America ha fatto passi da gigante da quei lontani anni Sessanta, eppure, talvolta sembra farne altrettanti indietro, verso un passato primitivo fatto di ingiustizie che conoscono un solo colore, che non assomiglia tanto al nero della pelle quanto a quello dell’odio. Walter L. Scott, per esempio, appena un mese fa, in South Carolina, è stato ucciso da otto colpi di pistola sparati da un agente di polizia, mentre correva via, in tutt’altra direzione. Due mesi fa, invece, è toccato a un diciannovenne del Wisconsin essere freddato mentre era disarmato, anche lui dalle forze dell’ordine. È successo proprio nel giorno di Selma, mentre anche il presidente Obama era pronto a celebrare i cinquant’anni della prima delle tre marce con cui M. L. King e gli altri manifestanti avrebbero impresso per sempre le loro orme nella storia.
Vengono in mente i nomi di Trayvon Martin e di Michael Brown, il primo ucciso in Florida a 17 anni, il secondo a 18 nel Missouri, soltanto perché nati con la colpa di avere la pelle sbagliata. Un uomo bianco che abbia commesso un crimine avrebbe maggiori possibilità di non rimetterci la vita, e semmai di ottenere anche uno sconto di pena, evitando di friggere sulla sedia elettrica o altre atroci torture; invece, un ragazzo di colore, paga lo scotto di vivere in un mondo che ha ancora troppa paura di tutto quel che non è uguale all’immagine che vediamo riflessa allo specchio. Non importa che sia armato o meno, che sia un teppista o un ragazzo perbene, il destino a volte ci accomuna tutti nella stessa, misera sorte.
Il dottor King fu assassinato il 4 aprile 1968 a Memphis, mentre era intento a preparare un’altra tappa di quell’inarrestabile movimento. Gli USA sono cambiati tanto, e forse lui stesso ne sarebbe contento, ma il razzismo ha ancora la stessa faccia, e la stessa violenza. Martin Luther King non si era fermato dopo il Nobel per la Pace, non si era fermato dopo il Bloody Sunday, continuava ad andare avanti, certo che si potesse togliere ogni giorno un granello di ignoranza in più alla sua America, e se un proiettile non l’avesse fermato quel giorno, se fosse ancora qui su questa terra oggi, continuerebbe a marciare ancora, e ancora, e ancora.