Un’opera dal valore inestimabile: la prima nel suo genere a vincere il premio Pulitzer.
La memoria può e deve essere alimentata dai libri di storia ma non può ignorare i racconti tramandati dai padri ai figli, dai nonni ai nipoti. Art Spiegelman è nato il 15 febbraio del 1948, poco più di tre anni dopo la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa sovietica. Non ha vissuto in prima persona il dramma della Shoah, ma ha ascoltato i racconti del padre Vladek e della madre Anja, due sopravvissuti al lager. Poco più che ventenne, ha poi sentito il bisogno di raccontare quella storia, regalando al mondo una delle opere più potenti mai realizzate riguardo questo tema.
A differenza di altre opere, come Se questo è un uomo o il Diario di Anna Frank, Spiegelman ha scritto un fumetto. Non un graphic novel, ma proprio un fumetto, pubblicato tra il 1980 e il 1991, prima di venire rilegato e diviso in due parti: Mio padre sanguina storia e E qui sono cominciati i miei guai. Maus non è un fumetto qualunque, è il primo ad aver vinto il Pulitzer, un’opera dal valore letterario universalmente riconosciuta. È un’opera in grado di imporsi oggi come uno di quei testi che, dovrebbero essere consigliati nelle scuole per una miglior conoscenza dello sterminio nazista degli ebrei.
In Maus, Spiegelman decide di dare ai protagonisti della storia fattezze animali. Gli ebrei sono topi, i tedeschi sono gatti. Si aggiungono poi i cani statunitensi, le libellule zingare, i pesci inglesi, gli alci canadesi, i maiali polacchi. Scelte dal fortissimo valore simbolico e metaforico, che comunque hanno creato diverse polemiche, soprattutto in Polonia, e persino una versione “pirata”, Katz, in cui tutti i personaggi assumano la forma di gatti.
Così come accaduto nella vita dell’autore, anche la vicenda ha inizio nei primi anni ’70, quando dopo la morte della madre per suicidio egli si avvicinò al padre, per chiedergli di raccontargli la sua storia. Nel fumetto avviene lo stesso, Artie interroga Vladek, che comincia a narrare i fatti della sua giovinezza, fino alla deportazione ad Auschwitz e all’esperienza nel lager. Racconta persino di quella volta che, mascherandosi da maiale, provò a farsi passare per polacco per sottrarsi alla persecuzione. Un passaggio di memorie di padre in figlio che genera in Artie una nuova consapevolezza della sua identità, del significato di essere figlio di deportati, del peso che l’esperienza vissuta dai genitori ha sulla sua stessa esistenza. Un tema peraltro già affrontato da Spiegelman in Prigioniero sul Pianeta Inferno, opera pubblicata nel 1968, ambientata nella New York contemporanea. Qui il protagonista indossa una metaforica divisa da carcerato, che viene ripresa e citata nella prima parte di Maus.
In Maus il dolore viene raccontato con delicatezza, senza spettacolarizzarlo in nessun modo, anche e soprattutto attraverso disegni essenziali. Spiegelman, che nella stessa opera racconta direttamente al lettore i suoi dubbi e le sue paure di non rendere giustizia alla sofferenza degli ebrei, sceglie intenzionalmente di descrivere la violenza, lasciando al suo scritto il compito di descrivere i terribili fatti di un’epoca di odio e violenza. Un’opera così complessa che lo stesso Spiegelman, nel 2011, vi è tornato con MetaMaus, un libro che approfondisce l’opera raccontandone la genesi e lo sviluppo, fornendo al lettore le stesse fonti a cui si era rivolto l’autore.