Nemmeno per il grande Eduardo de Filippo, oppure per l’intramontabile Totò si è vista, probabilmente, una cosi tanta commozione e partecipazione di massa. Eppure la morte di Pino Daniele ha lasciato tutti senza parole. Al suo funerale in piazza Plebiscito a Napoli, c’erano oltre 300 mila persone che cercavano, con silenzio e rispetto, di elaborare la perdita subita. Come se fosse un figlio della terra estirpato dalle sue radici, dal suo Sud, dalla sua Napoli a cui lui, invece, ha regalato tante emozioni, le migliaia di persone accolgono la sua salma, cercando di restituire, attraverso il dolore, ciò che hanno ricevuto in tutti questi anni di musica e poesia. In questi giorni i social network hanno veicolato canzoni, foto, poesie, concerti e persino parole del mitico cantautore napoletano ma tutte insieme non riescono a trasmettere il dolore immensamente provato per la sua scomparsa. Pino non c’è più e tutti rimangono inesorabilmente increduli. #CiaoPino, #ciaopinuzzo, #ciaoziopino sono stati gli hashtag più diffusi per esprimere l’affetto sincero e caloroso dei suoi fan. Ma pino non era semplicemente un mito da venerare, un modello da imitare, un’icona culturale. “Era Il fratello di tutti” questa è stata la frase più ripetuta – anche da chi non preferiva particolarmente il suo genere – per cercare di dare un senso a questo sentimento di tristezza e amarezza che ha sconvolto l’animo di vecchie e nuove generazioni. “Siamo cresciuti a pane e Pino” hanno detto in molti, facendo intendere l’intensità con la quale le sue canzoni hanno accompagnato inesorabilmente, e da sempre, i sogni e le speranze di ognuno. Molti altri, sempre nel tentativo di dare una spiegazione all’intenso coinvolgimento emotivo, si sono riferiti al suo indiscusso valore culturale, alla sua forza simbolica, legata a quel sentimento di coraggio e di riscatto tipico di una Napoli – quella più plebea- martoriata e resa difficile da un sistema che punisce i non ricchi. Ma Pino Daniele, figlio di quella beat generation che andava contro corrente, era l’uomo del bluse, dell’ibridazione, della creazione, della miscellanea, l’uomo che ha condiviso con la sua gente quello che ha imparato altrove, colui che ha esportato la cultura del sud in tutto il mondo attraverso il linguaggio universale della musica. La sua musica, quella che aveva nel sangue, era fatta di integrazione, di unione, di fratellanza, di melodie inesplorate ma autentiche. Le canzoni parlavano a tutti e di tutti, qualche volta scuotendo le coscienze, qualche volta esprimendo, invece, la nostalgia e amarezza verso un’inspiegabile impotenza nel migliorare le cose. Attraverso le sue canzoni restituiva l’immaginario collettivo di chi vive a Napoli con la sofferenza, di chi sente la rabbia di fronte all’impotenza di un mondo furbo, di chi ha subito inganni da parte di disonesti e da chi si è approfittato del mare e della bellezza della città per fare i suoi sporchi interessi. Napoli però è alleria, è appucundria, a voc re creatur, è femmena, è storia, è folclore, è fede, è addor e mare, è pazzia, è paura, è amore, è terra mia, e di queste cose lui ne era convinto benché ha vissuto gran parte della sua vita fuori la sua amata città. Con lui finisce un pezzo di storia dell’Italia che inesorabilmente porta con se conquiste e sconfitte. Ma dietro queste verità, dietro qualsiasi attribuzione simbolica, processo collettivo, identificazione culturale o qualsivoglia fenomeno sociale, rimane la sua persona, la sua unicità, la sua sensibilità, il suo essere mite e discreto, il suo essere grande artista malgrado tutto. E Napoli, proprio quando sembra di non farcela di fronte a tutte le sue sofferenze, forte della sua unicità, si raduna e scende in piazza per dare un ultimo saluto al suo fratello e maestro di vita felicemente consapevole, e memore di tanti figli della sua terra come de Filippo, Totò e Troisi, che morto pino non si può inventarne un altro.