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Napoli e Scampia nel cuore di Antonella Leardi

È una mattina di novembre, mezzogiorno è passato da un po’. Appena sceso dal pullman, avverto una netta sensazione, che mi sarà confermata pochi istanti dopo, nel tentativo di trovare un passante a cui chiedere indicazioni. Scampia è deserta, almeno da queste parti. Non un rumore viene dalle scuole o dalle case tutt’intorno. Sembra che questi alti palazzoni con l’intonaco scrostato trattengano dentro di sé ogni suono, diffondendo per le larghe strade solo silenzio. Scampia è ancora “spoglia”, per ripetere un aggettivo usato qualche minuto dopo da Antonella Leardi, mamma di Ciro Esposito. Anche se non come dieci o vent’anni fa. Un uomo mi indica cortesemente l’appartamento. Con ancora più gentilezza, vengo accolto in questa casa, come un vecchio amico di famiglia. La presenza di Ciro è dappertutto.

 

Da quando Lei vive qui, ha notato dei cambiamenti nel quartiere, in positivo o in negativo?

«Sono venuta a vivere a Scampia più di trent’anni fa, e devo dire che è cambiata tanto, e in meglio, di anno in anno. Si pensi che prima il quartiere era molto più spoglio di come appare adesso, non avevamo quasi niente. Poi sono venuti i primi supermercati, i trasporti pubblici sono migliorati, adesso c’è anche una stazione della metropolitana. Da questo punto di vista è diventato più facile spostarsi».

Quali sono i pregi di questa zona di Napoli che è tanto spesso vituperata?

«Qui vive tanta gente onesta, posso assicurare di aver conosciuto tanti ragazzi di buona famiglia che hanno davvero voglia di lavorare, e che si accontenterebbero anche di guadagnare 20 € al giorno per il più umile dei mestieri, ma il lavoro manca, purtroppo. Noi abbiamo la fortuna di riuscire a mettere il piatto a tavola ogni giorno, ma ci sono molte persone che hanno difficoltà, genitori che faticano persino a comprare i libri ai loro figli; così io e mio marito non temiamo di offrire anche un piatto di pasta a chi ci è vicino. In famiglia abbiamo l’usanza di condividere anche il cibo. E poi non bisogna dimenticare che c’è il Centro Sportivo Maddaloni, la ludoteca gestita dalle Suore della Provvidenza, ed altre strutture che si occupano dei ragazzi che vivono qui».

Sembra di capire che l’educazione dei giovani, e dunque anche la scuola, siano temi che Le stanno a cuore. Secondo Lei cosa andrebbe cambiato nella scuola di oggi?

«Credo che uno dei problemi della scuola, probabilmente non solo a Napoli, sia la mancanza di progetti volti a inserire i ragazzi nel mondo del lavoro, ad insegnare loro un mestiere concreto. Magari si potrebbe prepararli a svolgere un lavoro di artigianato, e cominciare a vendere, già dalle scuole, i loro prodotti. Ma è soltanto un esempio. Anche a tal fine vorrei impegnarmi con l’associazione, per raccogliere fondi che possano servire proprio alle scuole e ai ragazzi più bisognosi, perché i ragazzi sono il futuro, è su di loro che bisogna investire».

Parliamo proprio dell’associazione.

«L’associazione è stata ufficialmente fondata, anche se ancora non ci è stato affidato alcun locale che possa servire da sede. Ciro Vive non è un nome casuale. Sono convinta che la vita non finisca dopo la morte del corpo, ed è proprio la mia fede a darmi la forza per continuare a lottare, a credere che Ciro vive davvero ancora in noi, e quest’associazione può far sì che dal dolore nasca qualcosa di costruttivo, anche al di fuori del mondo calcistico. Avrei potuto lasciarmi andare, e invece ho scelto di trasformare la sofferenza in un impegno positivo a favore degli altri»

Dove vorrebbe che avesse sede l’associazione?

«Proprio a Scampia. Ciro è nato e cresciuto qui, è sempre andato a scuola qui, fin dalle elementari, quindi mi sembra giusto che la sede sorga nel suo rione. Lui amava Scampia, si è battuto spesso per il quartiere, insieme ai ragazzi sani di questa zona. Mio figlio era un guerriero nato, non che facesse del male a qualcuno, ma di quelli buoni. Io lo chiamavo “paladino”».

E a proposito della giustizia in Italia, considerando anche l ultime vicende?

«L’incidente probatorio mi ha dato la sensazione che si giocasse tutto a favore di Daniele De Santis. Io ho perdonato fin dall’inizio, e posso ripeterlo ancora con sincerità. Mi auguro che l’assassino di mio figlio possa trovare la pace, ma ciò non toglie che debba pagare per quello che ha fatto. È stata strappata via una vita ad un ragazzo di trent’anni senza nessun motivo. L’incidente probatorio è stato davvero ridicolo e surreale. Mi auguro che il processo sia molto più serio. Sto ancora aspettando che sia fatta giustizia, continuo ad aver fiducia nella legge. Adesso ci saranno le testimonianze, poi si vedrà come andrà a finire. Penso che l’artefice del delitto debba finire i suoi giorni in carcere, e non lo dico in quanto madre della vittima, ma come cittadina italiana, perché altrimenti noi, come Stato, abbiamo fallito».

L’associazione ha dei progetti in programma?

«Ce n’è uno previsto per il 23 dicembre al Policlinico Gemelli di Roma. Voglio iniziare da lì, perché lì Ciro è stato trattato come un principe dal Prof. Massimo Antonelli e da tutta l’equipe medica, che non smetterò di ringraziare finché avrò vita. Abbiamo già raccolto dei fondi con l’evento del 25 novembre, Buon compleanno in Paradiso, e se pure non saranno tanti, contiamo comunque di poter fare qualcosa per quei bambini che sono ancora lì in rianimazione».

 

Si conclude così l’intervista. Un abbraccio, poi ancora uno sguardo alla casa. La freddezza delle nuvole grigie di fuori contrasta con il clima che c’è qui dentro. C’è più calore tra queste quattro mura che altrove.

 

 

 

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