Era il 4 aprile 1943, quando gli aerei americani lanciarono su Napoli un autentico diluvio di bombe. In città nessun quartiere poteva definirsi sicuro, mentre dal cielo pioveva di tutto, persino volantini nei quali si “spiegava” alla popolazione la “necessità” di quell’attacco apocalittico. Nonostante Mussolini fosse stato scalzato dal potere, Badoglio non ruppe affatto il patto con i tedeschi e continuò la guerra a fianco di Hitler. Gli americani decisero di infliggere il colpo mortale alle mire belliche italiane in un Paese oramai semidistrutto, fiaccato nel morale e quanto mai diviso, colpendo nel modo più terrificante alcune città italiane, fra queste Napoli. Il 1 agosto del 1943 un altro bombardamento terribile si abbatteva su Napoli alle 11 di mattina, e sulla provincia alle 22. Le zone più colpite furono il porto, la zona industriale e la stazione ferroviaria, con il solito “effetto collaterale” di colpire anche i quartieri circostanti. Una bomba trapassò la volta della galleria della metropolitana usata come ricovero della popolazione causando centinaia di vittime. I soliti volantini incitavano il popolo a sabotare ogni attività tedesca e scioperare nei luoghi di lavoro. Il 4 agosto alle ore 13 e 30 scatta senza preavviso l’allarme a Napoli. La città subì un attacco devastante sotto numerose bombe incendiarie e dirompenti. La più dolorosa e grave incursione che ha colpito Napoli durante i tre anni di guerra. L’intera città bruciava e crollava, case, monumenti, chiese (San Domenico e Santa Chiara su tutte), ogni cosa. Per tutto agosto e gli inizi di settembre i bombardamenti continuarono senza tregua. Alla vigilia dell’armistizio, Napoli era una città distrutta.
L’8 settembre, però, non arrivò la fine auspicata e pure festeggiata dalla popolazione napoletana. Nei paesi limitrofi quello stesso giorno vi furono ancora raid violentissimi. Gli americani tentavano di rendere impossibile la ritirata tedesca e bombardavano ponti e accampamenti senza neanche interrogarsi di quello che sarebbe rimasto in piedi. Le navi inglesi e americane cannoneggiavano il golfo di Salerno. Dopo l’8 settembre dal cielo cadevano bombe e in terra le truppe tedesche facevano tabula rasa al loro passaggio. Le istituzioni italiane erano allo sfascio. I morti nei bombardamenti americani secondo il resoconto di quel che restava delle Istituzioni “ufficiali” furono 3100 circa, cui si doveva aggiungere le 470 vittime dei bombardamenti tedeschi. I registri napoletani per quartiere forniscono invece la cifra di 6097 vittime, tra i deceduti sotto le macerie (verosimilmente il primo dato) e quelli, in seguito, registrati in ospedali cittadini. Moltissimi corpi non ebbero sepoltura, risultarono dispersi, non furono mai denunciati o lo furono molto tempo dopo, e quindi ogni cifra appare per difetto. Questi i dati riguardanti il solo anno 1943, in quanto bisognerebbe aggiungere quelli del 1940, 1941 e 1942. A queste vittime bisogna aggiungere quelle morte per malattie infettive, per il freddo, per fame… Molte di queste vittime morirono nei rifugi travolte dalla folla che scappava dai bombardamenti, nei crolli o per le epidemie che dilagarono proprio a causa delle terribili condizioni igieniche in cui si trovavano. La maggior parte dei ricoveri cittadini erano stati ricavati nelle antiche cavità del sottosuolo napoletano, altri nelle cavità dell’acquedotto borbonico, altri ancora nelle gallerie ferroviarie. Nell’autunno del 1943 migliaia di famiglie senza tetto abitavano stabilmente nei ricoveri, quasi 12mila persone sparse tra i 41 ricoveri della città. Una marea di gente, una promiscuità forzosa che portò ad un’epidemia di tifo diffusasi poi nel resto della città. Le autorità alleate decisero di chiudere tutti i ricoveri ed allontanare gli infetti per ospedali ed istituti fuori città. Quelli rimasti senza casa sarebbero stati considerati profughi nell’attesa di sistemazione che ufficialmente non giunse in pratica mai.
Il 9 settembre 1943, all’alba, gli alleati sbarcarono a Salerno disorganizzati a tal punto che in un primo momento si pensò di reimbarcarli. Solo l’aiuto delle truppe britanniche provenienti dalla Sicilia scongiurò l’eventualità, ma ci vollero ben tre settimane per venire da Salerno a Napoli.
Nel frattempo, però, i napoletani già si erano dati da fare operando sabotaggi ai danni dei tedeschi, e quest’ultimi rispondevano con deportazioni ed esecuzioni. Scattò la ribellione come atto di difesa spontanea del popolo, con le madri in testa che vedevano caricati sui camion nazisti i loro figli. Seguì una lotta feroce contro i tedeschi che si erano dati al saccheggio di ogni mercanzia per sfamarsi durante la ritirata, ma i napoletani affamati contesero in una lotta senza quartiere il bottino ai rapinatori. I nazisti allora cominciarono a rastrellare tutte le “braccia utili” costringendo uomini adulti e ragazzi a lavorare per loro, chi si rifiutava, veniva fucilato. Chi poteva scappava e la popolazione intera aiutava ai fuggitivi. Ogni botola, ogni soppalco, ogni soffitta era un nascondiglio pieno di uomini. I tedeschi giravano per le strade rastrellando e puntando i cannoncini dei carri armati contro gli edifici civili, sparando a più non posso contro il minimo pericolo supposto. Partono da questo soffocamento di spazi, dall’allontanamento degli affetti, dalla fame procurata e dalla mancanza di ogni libertà, quelle che poi sono state le 4 giornate di Napoli (27 – 30 settembre 1943), una sollevazione popolare senza l’aiuto di nessun alleato, prima città in Italia a scacciare autonomamente i nazisti. I tedeschi si vendicarono, quando tutto sembrava oramai finito, con bombardamenti feroci dall’alto ad ottobre dl 1943 e tra marzo e aprile del ’44 il raid tedesco più intenso, uno dei più gravi della guerra. Fu colpito soprattutto il centro antico della città, fra i decumani e via Duomo, poi la zona che va da via Roma a via Chiaia e il Vomero. Alla fine della guerra, Napoli si trovò a contare 20mila morti, cifra anche questa volta per difetto generata nel caos assoluto in cui ancora persisteva l’Autorità italiana. Finita una guerra, Napoli ne comincia subito un’altra, quella della sopravvivenza durante l’occupazione americana.