“I giornali hanno dato ampio spazio a ipotesi e previsioni relative alle eventuali dimissioni del Presidente della Repubblica” e “la Presidenza della Repubblica non ha pertanto né da smentire né da confermare nessuna libera trattazione dell’argomento sulla stampa”. L’ufficio stampa del Quirinale ha risposto così ieri con una nota ai retroscena comparsi tra sabato e domenica su tutti i quotidiani nazionali, secondo cui Giorgio Napolitano sarebbe pronto a rassegnare le dimissioni entro la fine dell’anno. I ben informati raccontano di un presidente stanco e provato sul piano fisico, intenzionato a ritirarsi dall’impegno del Quirinale al termine del semestre di presidenza italiana in Europa e contrariato all’idea di dover assistere a uno scioglimento anticipato delle Camere che andrebbe in direzione opposta a quanto sempre auspicato, anche nel suo discorso al Parlamento seguito alla rielezione.
Gennaio, marzo o al di più tardi giugno, le date possibili delle dimissioni. Intanto è già partito il toto-nomi così come gli appelli all’unità e responsabilità di tutte le forze politiche per evitare il teatro dell’assurdo che nella primavera del 2013 costrinse Re Giorgio a tornare sul trono, e cui si è assistito in qualche modo anche nelle scorse settimane a proposito di elezione dei giudici della Corte Costituzionale.
In realtà, “l’abdicazione” di Napolitano non stupisce perché già nel suo discorso di insediamento aveva messo in chiaro che «mi accingo al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione «salvifica” delle mie funzioni; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, le funzioni che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno. Inizia oggi per me questo non previsto ulteriore impegno pubblico in una fase di vita già molto avanzata».
Era un Napolitano contrariato dallo spettacolo offerto dalle istituzioni in quei giorni, ma pure dagli anni sprecati da una politica incapace di dare risposte in tema di riforma della legge elettorale e superamento della crisi economica, e che da saggio aveva ammonito: «Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario. Molto si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui, perché su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale. Ma ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese».
A distanza di un anno e mezzo le riforme dell’assetto istituzionale sono state avviate non senza perplessità, quella della legge elettorale è ancora prigioniera delle mura del Nazareno, sul piano economico la ripresa non si è registrata e temi come il lavoro dividono anziché suscitare responsabilità tra gli attori politici e le parti sociali.
«Volere il cambiamento – spiegava ancora nel suo discorso Napolitano – ciascuno interpretando a suo modo i consensi espressi dagli elettori, dice poco e non porta lontano se non ci si misura su problemi come quelli che ho citato e che sono stati di recente puntualizzati in modo obbiettivo, in modo non partigiano. Misurarsi su quei problemi perché diventino programma di azione del governo che deve nascere e oggetti di deliberazione del Parlamento che sta avviando la sua attività. E perché diventino fulcro di nuovi comportamenti collettivi, da parte di forze – in primo luogo nel mondo del lavoro e dell’impresa – che “appaiono bloccate, impaurite, arroccate in difesa e a disagio di fronte all’innovazione che è invece il motore dello sviluppo”. Occorre un’apertura nuova, un nuovo slancio nella società; occorre un colpo di reni, nel Mezzogiorno stesso, per sollevare il Mezzogiorno da una spirale di arretramento e impoverimento».
E in un altro passaggio del discorso ancora di estrema attualità c’era la traccia da seguire per la stabilità politica che Renzi ha dato al suo governo con le larghe intese anche se non da tutti condivisa: «Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti».