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Neruda e Capri. I versi del poeta che decanta le bellezze naturali dell’Isola

Scendendo lungo il ripido sentiero che conduce ai Faraglioni capresi, non si può non notare un’iscrizione, scolpita nella pietra isolana.

«Capri, regina di rocce / nel tuo vestito color giglio e amaranto / son vissuto per svolgere dolore e gioia / la vigna di grappoli abbaglianti conquistati nel mondo / il trepido tesoro d’aroma e di capelli / lampada zenitale, rosa espansa, arnia del mio pianeta…»

I versi di Pablo Neruda accolgono così il viaggiatore, decantando una bellezza naturale fantastica, che favorisce, allo stesso tempo, amore e letteratura, sogni e meditazioni. Nel febbraio del ‘49, Neruda era stato costretto a fuggire dal Cile a causa del suo attivismo comunista che lo vedeva in aperta ostilità contro il governo del proprio Paese. Rifugiatosi a Capri nel 1952 con la futura moglie Matilde Urrutia, il poeta cileno compose “I versi del capitano”, raccolta erotica e passionale che palpita ancora con la stessa forza di una volta («Io ti ho creata, ti ho inventata in Italia. Ero solo. Il mare tra le fenditure spargeva violento la sua spuma seminale. Così si preparava la scabra primavera»). Non passava giorno che il poeta non componesse versi dedicati all’isola e alla sua donna, liriche appassionate riunite in due bellissime raccolte. Neruda amò il golfo di Napoli, amò quel blocco di terra sospeso nel mare, amò quei colori mozzafiato e le baie battute dal vento, amò la piazzetta elegante in cui si riunivano ragazze dai larghi cappelli di paglia. Neruda conobbe la Capri più vistosa, ma si perse in «una Capri recondita, dove si entra soltanto dopo un lungo pellegrinaggio e quando ormai l’etichetta del turista ti si è staccata di dosso […]. Uno si sente ormai consustanziato con le cose e la gente; ti conoscono i cocchieri e le pescatrici; fai parte della Capri nascosta e povera; e sai dove trovare il buon vino che costa poco o dove comprare le olive che mangiano quelli del posto» (Confesso che ho vissuto, cit, p.283).

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E lo scrittore si lanciò, poi, nelle profondità del golfo, scoprendo, come un palombaro, la vita misteriosa degli abissi: il mondo sommerso, popolato da plancton non era forse tanto differente da quello luminoso ed evidente, sorpreso su una spiaggia rocciosa.

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[…] Adesso vengo da un’altra parte. Ho lasciato dietro di me l’ultimo santuario azzurro del Mediterraneo, le grotte e le insenature marine e sottomarine dell’isola di Capri, dove le sirene uscivano a pettinare sulle rocce i loro azzurri capelli, perché il movimento del mare aveva tinto ed inzuppato le loro folte capigliature.

Nell’acquario di Napoli ho potuto vedere le molecole elettriche degli organismi primordiali e salire e scendere la medusa, fatta di vapore e argento, che si agita nella sua danza dolce e solenne, circondata all’interno dall’unica cintura elettrica portata finora da qualsiasi dama delle profondità sottomarine».

(P. Neruda, Oceanografia dispersa, in Id., Confesso che ho vissuto, Torino, Einaudi, 1998, pp.286-7.

 

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