Niente visita in Turchia per Petro Porochenko, il presidente ucraino costretto ad annullare il viaggio a causa dei recenti sviluppi nell’est del Paese. Il confine orientale si fa sempre più caldo, e dal momento in cui il vicino russo ha esteso le sue mani armate oltre la frontiera comincia addirittura a scottare. E mentre le truppe moscovite s’impadronivano, non molte ore fa, della città di Novoazovsk, gli ucraini guardavano all’ovest e all’Europa al grido di “Arrivano i russi, arrivano i russi”. Solo che, a differenza del film del 1966, è difficile qui immaginare un lieto fine. Eppure le strette di mano dovranno significare qualcosa. Ma non se ti chiami Vladimir Putin, e sei il presidente della Russia, o meglio ancora, della Federazione Russa. E la precisazione non è priva di senso.
Dire che la Russia ha invaso l’Ucraina non è sbagliato, ma non sarebbe nemmeno completamente corretto. Bisognerebbe aggiungere che la Russia non ha mai tolto gli occhi dall’Ucraina. Al gigante rosso non è mai andato giù che l’Ucraina e altri vicini dell’area sovietica si alleassero nel GUAM lasciandolo fuori, così come ha tentato di trasformare fin dall’inizio la Comunità degli Stati Indipendenti nel neosostituto meno imponente, ma pur sempre invadente, dell’URSS. Basta guardare l’elenco dei segretari esecutivi della CSI per accorgersi di chi controllava realmente la situazione.
L’Ucraina in tutto questo ha giocato la parte del figlio più discolo, della pecora nera della famiglia, ribellandosi alle ingerenze di Mosca e auspicando all’ingresso nell’Unione Europea e nella NATO, mentre il grande padre padrone puntava sul suo cavallo di battaglia, ciò che fa girare il mondo, il denaro e l’economia; e si sa che, se non c’entra il gas di mezzo, si ricorre alle restrizioni sulle importazioni e alle tariffe doganali.
Ma parlare del desiderio dell’Ucraina di affrancarsi dal suo passato di Repubblica socialista senza le dovute specificazioni può essere fuorviante. L’Ucraina è divisa in due. C’è la metà che vorrebbe firmare l’accordo con l’UE, e l’altra che ne teme le conseguenze economiche; la metà che sostiene appieno l’Euromaidan e quella schieratasi decisamente contro; c’è la giovane Ucraina filoeuropeista e la vecchia filorussa; c’è l’Ucraina dell’ovest e quella dell’est. E le due parti, in quasi ogni caso, si equivalgono perfettamente. Scrollarsi la propria storia dalle spalle e soprattutto conciliare le aspettative delle numerosissime minoranze non dev’essere facile, specialmente se l’ombra della Russia continua ad estendersi su tutto il Paese. Allo stesso modo in cui per la Russia non dev’essere facile liberarsi della sua ormai secolare politica fatta dei soliti punti fermi: invasione, repressione, negazione. È la storia dell’Afghanistan, della Cecenia, e della Crimea appena pochi mesi fa. È il caso di Andrey Kelin, l’ambasciatore russo per l’Osce che ha negato la presenza di soldati russi in Ucraina, come se nell’epoca dei satelliti fosse ancora possibile nascondere qualcosa. Ricorda tanto Putin che nega i processi politici ad Alexei Navalny e alle Pussy Riot, o il responsabile del Cremlino per gli Affari esteri Serghei Yastrzhembsky che negava l’occupazione dei Paesi baltici da parte dei russi durante la Seconda guerra mondiale, e persino Kisenkov che negava di aver sputato all’arbitro nonostante le immagini televisive. Qualunque cosa tu faccia, in Russia, l’importante è negarlo. Ci vollero quasi trent’anni perché Kruscev arrivasse a denunciare i crimini staliniani, ma ancora non era in grado di vedere le falle insite nel modello sovietico. Forse ce ne vorranno altrettanti prima che la Russia si metta l’anima in pace e capisca che l’Europa orientale non è più roba sua.