Il cervello e i processi che lo riguardano da qualche anno ormai sono “trendy” e non solo in ambito prettamente medico. Assistiamo così a una proliferazione di parole con il prefisso neuro-, dalle note neurologia e neurochirurgia a discipline meno conosciute, come la neuroeconomia. Recentemente l’attenzione di alcuni esponenti della comunità scientifica si è rivolta anche al cibo e al modo in cui il nostro cervello lo interpreta. Ne è nata la neurogastronomia, il cui nome è stato coniato (insieme alla disciplina stessa) dal neuroscienziato americano Gordon M. Shepherd.
L’obbiettivo essenziale della neurogastronomia, come si legge nel libro manifesto di Shepherd All’origine del Gusto (Codice Edizioni), è proprio «comprendere come il cervello crea i sapori che sperimentiamo». Il tutto non per una pura sete di conoscenza, ma piuttosto per «fornire all’alimentazione sana una nuova base».
Non gusto, ma sapore
Molte rivoluzioni concettuali passano attraverso rivoluzioni del linguaggio, quasi sempre a livello lessicale. Ecco, per Shepherd sarebbe più corretto utilizzare – nonostante il titolo del libro – il termine sapore in relazione a un alimento, piuttosto che gusto. Questo anche perché il sapore di ciò che mangiamo è in realtà dovuto in gran parte non al senso del gusto – che è comunque coinvolto insieme a tutti gli altri sensi – ma più che altro all’olfatto.
L’olfatto retronasale
Ma attenzione: non parliamo qui del consueto atto dell’annusare, bensì dell’olfatto retronasale. Semplificando necessariamente molto, il sapore del cibo non lo percepiamo perché annusiamo un piatto, ma «perché espiriamo, emettendo piccoli sbuffi di odore dal cibo e dalle bevande dal retrobocca e all’indietro attraverso i passaggi nasali mentre mastichiamo e deglutiamo. Questo approccio “dalla porta sul retro” viene definito olfatto retronasale».
I sapori e la memoria
Fra le varie intuizioni della neurogastronomia, quella sul rapporto cibo-memoria è particolarmente intrigante. Anche qui in parole il più semplici possibili, potremmo dire che un odore lascia un segno in alcune aree del cervello; lascia un’impronta, o meglio ancora, un’immagine.
E proprio come riusciamo – chi più, chi meno – a riconoscere i volti delle persone, grazie agli studi neurogastronomici sappiamo che questa abilità si applica anche agli odori. Certo, non abbiamo ricettori olfattivi numerosi come quelli di altri animali; tuttavia la dimensione del nostro cervello è maggiore. «Gli esseri umani hanno un senso del sapore molto sviluppato per via della complessa elaborazione che avviene nel loro grande cervello»; non ci sbagliamo troppo, quindi, se diciamo che in realtà gran parte del sapore risiede nel cervello. Non per niente Shepherd parla proprio di sistema cerebrale umano del sapore.
Eh sì, non poteva passare molto tempo prima che qualche chef si accorgesse di questa disciplina, stanandola dalle mura accademiche. In Italia ci ha pensato il giovane Michelangelo Mammoliti, alla guida dello stellato Ristorante La Madernassa di Guarene, al confine tra le Langhe e il Roero.
Delle varie sfumature della neurogastronomia, Mammoliti ha intercettato soprattutto quella che indaga la memoria in relazione al cibo. «Tutti in Italia parlano di cucina della memoria, ma nessuno si è mai messo ad analizzare come mai ci ricordiamo determinati odori o perché il croccante ci suscita specifiche sensazioni» ha raccontato in un’ intervista.
Per Mammoliti, così, la neurogastronomia è diventata uno strumento non solo per evocare alcune memorie in chi assapora i suoi piatti, ma anche per raccontare la sua cucina e insieme la sua storia. «Volevo mettere in tavola alcuni sapori della mia infanzia». Ha così avviato un progetto con la psicoterapeuta Francesca Collevasone: innanzitutto hanno recuperato alcune delle sue memorie di bambino; poi grazie allo studio – «tra i fornelli mi sono trovato a leggere pubblicazioni sul tema» – ha ideato dei piatti che potessero suscitare ricordi analoghi.
«Gli odori e i sapori del cibo stimolano il sistema limbico del cervello, quella parte che regola le emozioni», spiega la dottoressa Collevasone. «Questo sistema è connesso all’ippocampo, l’area cerebrale che governa invece il ricordo. In questo processo quindi il piatto tiene insieme conscio e inconscio, emozioni e ricordi».
Un esperimento non privo di rischi se si pensa che un sapore può sortire una reazione positiva in alcuni, ma negativa in altri. Dipende dal ricordo associato a quell’odore. Ma secondo Mammoliti «i ricordi associati al cibo sono quasi tutti positivi».
Ovviamente non tutti possono cogliere alcuni riferimenti al passato dello chef, nato in Piemonte da una famiglia di origine calabrese. «La trippa di baccalà del mio piatto da Nord a Sud mi ricorda un pasto che mi preparava mio papà. Ma questo legame difficilmente viene colto da una persona del nord».
Ma tant’è, Mammoliti si definisce audace e sempre alla ricerca di nuovi stimoli per la propria creatività. E così questa nuova frontiera dello studio delle sensazioni legate al cibo diventa un mezzo per proporre «piatti che suscitano ricordi e che anche per questo si fanno ricordare»