Amo le donne. Intensamente, sinceramente, virilmente.
Ma non rende giustizia dirlo così genericamente, perché mentre lo dico prendono forma i volti, i toni delle voci, i colori degli occhi, il tratto delle movenze. Una per una. Tantissime. Mamme, giovani, nonne, adolescenti. Affetti diversi, modalità e intensità di rapporto tra le più varie. Amicizie intensissime. Relazioni ruvide. Vicinanze delicate e discrete. Collaborazioni ricchissime.
Chissà se si può essere preti senza innamorarsi almeno di una donna. Senza amare tutte le donne.
Non passa giorno in cui non senta quanto fortemente io abbia bisogno e quanto cerchi la femminilità, la sororità, la maternità nel mio essere prete. Di come le desideri come l’altra metà di me, perché è l’altra parte di quel Dio che ha chiesto di appartenermi e a cui ho deciso di appartenere e che se ha il volto di un Padre, ha certamente il cuore di una Madre e un modo d’amare cui solo una donna sa dare forma.
Perciò, qualora non cercassi, non desiderassi e non accogliessi la femminilità nella mia vita sarei un credente a metà e un prete part-time, impedendo in quel modo a Dio di donarsi a me per intero, in tutta la Sua bellezza.
Quella rinuncia sarebbe chiaramente un vero e proprio difetto di fede. Eppure ho trascorso anni in un Seminario, che intendeva crescermi alla fede e prepararmi al ministero, in cui il femminile era quasi solo problematizzato e il rapporto con le donne considerato una questione da risolvere per poter accedere al ministero.
Un ambiente di carattere esclusivamente maschile anche nell’impostazione educativa, impegnato a insegnarmi la collaborazione e la fraternità solo tra uomini, in una visione di Chiesa in cui l’unico femminile considerato era quello della Madonna.
Tutto incredibilmente distante dal quotidiano della vita di un prete di parrocchia, immersa invece per l’ottanta per cento del tempo in relazioni di carattere femminile.
Grazie a Dio, non mi è mancato il dono di chi mi insegnasse a starci, già prima di diventare prete, ma ancor più dall’ordinazione in poi. Sono le donne che ho accanto quali collaboratrici e amiche, che scopro quotidianamente come l’altra metà del mio essere prete e senza le quali lo stesso mio ministero sarebbe mutilo e irrisolto.
Perché è da loro che ascolto e imparo continuamente il racconto di un Dio presente nella mia vita come un principio di ospitalità e di accoglienza, come uno spazio che si apre per la mia libertà e a vantaggio del mio realizzarmi, come uno sguardo che coglie le sfumature di me e delle situazioni che vivo sapendole rispettare e custodire.
E con gratitudine riconosco che il racconto di un Dio che scava nella propria libertà per aprire una dimora in cui darmi casa non può che farlo una donna.
Apprezzo sempre più, nel gustare lo spazio della femminilità, che il ministero del prete non è solo un «fare» per l’altro ma anche «lasciarsi fare» dall’altro. Non è affatto una pausa dal lavoro apostolico essere accolto e consolato prendendo posto in una femminilità che si fa grembo: piuttosto ne è parte integrante e fondamentale, in quanto occasione per conoscere e allo stesso tempo annunciare la qualità materna dell’animo di Dio. Riposare in quel femminile che mi si pone accanto a mo’ di dono è essere prete a tutti gli effetti e in modo perfetto. Anzi, è essere «messo al mondo» come prete.
Al di là di tutte le teorie e teologie, oltre tutte le malizie ma anche le miserie che circondano il celibato di un prete, esso è comprensibile, autentico e sostenibile solo a partire da questa prospettiva e se vissuto in questi termini. Ma soprattutto solo in questo modo è epifania di Dio. Altrimenti è un’inutile castrazione.
Così mi insegnano le donne di questa mia Chiesa regalandomi il loro affetto di madri, sorelle, figlie, amiche, compagne di vita e mettendomi al mondo come prete. Ogni giorno.