Grande risonanza ha avuto nei media la pubblica scomunica dei mafiosi nel corso della celebrazione della Messa da parte di papa Francesco nella piana di Sibari nel corso della sua visita alla diocesi di Mons. Nunzio Galantino, segretario della CEI, Cassano Jonio. Non è stata solo una publica declaratio di non comunione con la chiesa da parte di “mafiosi” (boss, affiliati, gregari?), ma secondo lo stile di Francesco fondata su un argomentazione pastorale di perseguimento e comunione con il male, dell’idolatria del denaro con ogni mezzo. E’ stato rilevato dai commentatori un crescendo in questa presa di coscienza e condanna da parte della Chiesa delle varie forme di criminalità organizzata, dall’anatema di Wojtyla nella Valle dei templi ad Agrigento (1993) “Mafiosi convertitevi”, a Benedetto XVI nel Politeama di Palermo “La mafia è incompatibile col Vangelo”, alla storica omelia di Pappalardo ai funerali di Dalla Chiesa “Mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata”.
Al di là di questi importanti interventi pubblici di pontefici, non si possono ignorare più articolati documenti e riflessioni, come il documento della Conferenza episcopale italiana, Per un paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, Bologna 2010, in riferimento in particolare alle discussioni sulla mafia devota o religiosità dei mafiosi, all’atteggiamento della chiesa nei confronti delle diverse forme di criminalità organizzata nel Mezzogiorno, all’incompatibilità tra agire mafioso e Vangelo cristiano. In continuità con il documento del 1989 che condannava la criminalità organizzata come un “cancro”, il documento menzionato rinnova la condanna di questa criminalità come una delle “sue piaghe più profonde e durature” che impedisce al Mezzogiorno di liberare tutte le sue energie, costituisce un ostacolo allo sviluppo economico, esercita un controllo malavitoso del territorio, si avvale di una cultura che consente di rigenerarsi anche dopo le sconfitte inflitte dallo Stato. E la società civile nelle diverse regioni fa fatica a scuotersi ed a reagire efficacemente.
Merita attenzione in questo documento sotto il profilo etico ma non solo, la chiara definizione delle mafie non solo come “peccato” ma come “strutture di peccato”, o “peccato sociale” anche per le conseguenze che ne derivano per la conversione ed il pentimento dei mafiosi. Alla luce dei testimoni che si sono immolati per la causa della giustizia (don Pino Puglisi, don Giuseppe Diana, il giudice Rosario Livatino), nel contesto meridionale «le mafie sono la configurazione più drammatica del “male e del “peccato. In questa prospettiva, non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione; le mafie sono strutture di peccato: solo la decisione di convertirsi e di rifiutare una mentalità mafiosa permette di uscirne veramente e, se necessario, subire violenza ed immolarsi» (n. 9).
Nella chiara ed articolata denuncia della piaga profonda rappresentata dalla criminalità organizzata nelle regioni meridionali, e nella riaffermazione dell’incompatibilità della mentalità e dell’agire mafioso con la lezione del Vangelo cristiano, solo poche parole sono spese per “riconoscere che le Chiese debbono ancora recepire sino in fondo la lezione profetica di Giovanni Paolo II e l’esempio dei testimoni per la giustizia” (n. 9). C’è un richiamo alla c.d. “zona grigia”, che talvolta comprende anche uomini di chiesa, in riferimento ai tanti che cedono alla tentazione di non parlare più del problema, o di considerare i temi del contrasto alla mafie come estranei ai compiti pastorali o di limitarsi a parlarne come di un male antico ed invincibile, e la testimonianza di quanti hanno sacrificato la vita nella lotta o nella resistenza alla criminalità organizzata rischia di rimanere un esempio isolato. Si tratta di verificare per il territorio napoletano e campano fino a che èmaturata la consapevolezza che i metodi, la cultura, gli stili di vita le relazioni estese di cui è capace il sistema camorra sono “strutture di peccato” che alimentano quella architettura di peccato illegale che soffoca la vita sociale.
Il riferimento ad una religiosità distorta o senza “costrutto morale”(come Croce definiva la religiosità del popolo napoletano nel settecento) richiama un immaginario religioso tradizionale o devozionale che è comune a strati delle popolazioni meridionali e che non mette in questione contiguità culturali che costituiscono un humus di riproduzione delle pratiche malavitose. Nello stesso tempo la definizione delle mafie come “strutture di peccato” o “peccato sociale” porta ad interrogarsi da parte degli operatori religiosi a contatto con i reclusi nelle carceri sulla valenza o dimensioni della conversione, del pentimento, della riparazione che non possono essere puramente soggettive o individuali. Questi e simili problemi debbono interessare le sedi di elaborazione teologica e di formazione dei futuri presbiteri e religiosi per colmare la lacuna di una riflessione più specificamente teologica o etico-religiosa sui rapporti tra religione e le diverse forme di criminalità organizzata nel Mezzogiorno. Sotto questo profilo bisogna segnalare il recente sussidio dell’Arcidiocesi napoletana per una catechesi dentro le mura “Andate in città”, Napoli 2014, che, sulla scia delle “Sette opere di misericordia” dipinte dal Caravaggio nel Pio monte della misericordia, dedica un ampio contributo al carcere per colpa, al carcere per povertà (usura), al carcere per sofferenza morale. Si evidenzia, secondo il sociologo napoletano Giacomo Di Gennaro, la necessità di «Una linea pastorale capace di coinvolgere le diverse realtà ecclesiali spesso ignare della gravità del problema o capace di non abnegare al ruolo profetico di una chiesa locale che proprio sul terreno del contrasto alla camorra, dell’educazione alla legalità come senso dell’agire civile e di uno stile di vita più eticamente orientato dei cittadini può trovare più coraggiose motivazioni di aggregazione»