Un’uscita dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sulle probabilità di trasmissione della CoViD-19 da parte dei soggetti asintomatici ha generato parecchia confusione, così come il successivo tentativo di chiarimento. Lunedì 8 giugno, nel corso di una conferenza stampa, Maria Van Kerkhove, l’epidemiologa a capo dell’Unità malattie emergenti e zoonosi dell’OMS, ha detto che è «molto raro» che gli individui con infezione attiva da SARS-CoV-2, ma asintomatici, trasmettano a loro volta la malattia.
CHIARIMENTI POCO CHIARI. Molti giornali hanno ripreso queste dichiarazioni, soprattutto perché la questione del contagio da parte di asintomatici è uno degli aspetti più misteriosi e dibattuti della covid. Tuttavia, in una successiva sessione di domande e risposte aperte al pubblico, Kerkhove ha ridimensionato le sue affermazioni spiegando di essere stata fraintesa e di dover chiarire meglio il contesto di queste assunzioni.
L’epidemiologa ha spiegato che la maggior parte dei casi di trasmissione avviene dai pazienti sintomatici attraverso droplets infettivi (le famose goccioline, prodotte da respirazione, tosse eccetera), ma che esiste una percentuale non meglio precisata (tra il 6% e il 41%) della popolazione di positivi che non sviluppa sintomi, e che alcune di queste persone possono non trasmettere la malattia. Le sue affermazioni, ha precisato Kerkhove, si riferivano a un sottogruppo molto limitato, di due o tre studi, che hanno identificato alcuni pazienti realmente asintomatici e li hanno seguiti nel tempo, tracciando i loro contatti per vedere poi quante persone fossero state da loro contagiate. Il “molto raro” era relativo a queste analisi e ad alcuni dati (non ancora pubblicati) di esperti consultati dall’OMS, e non a una tendenza riscontrata in tutto il mondo.
D’altro canto, ha concluso Kerkhove, alcuni modelli (quindi stime e non studi sui singoli pazienti e sui loro contatti) sulla proporzione di asintomatici capaci di trasmettere l’infezione ipotizzano che il 40% di questi possa contagiare a sua volta, e secondo molti scienziati, la trasmissione da parte degli asintomatici o dei paucisintomatici (ossia gli infetti con sintomi lievi e molto lievi) è proprio alla base della rapidissima diffusione del coronavirus SARS-CoV-2 rispetto a SARS e MERS. Per il momento, questa rimane una domanda aperta, anche perché occorrerebbe distinguere tra persone genuinamente asintomatiche, che non hanno sviluppato e non svilupperanno mai i sintomi; presintomatiche, che li svilupperanno e possono trasmettere l’infezione nei giorni prima di svilupparli; e infine persone con sintomi talmente lievi da non essere facilmente riconducibili alla covid, neanche dopo un consulto medico.
SIAMO TUTTI POTENZIALI ASINTOMATICI. O NO? La vicenda ha destato perplessità nella stampa e nell’opinione pubblica, anche perché è emersa all’indomani di un altro cambio di rotta, quello sulle mascherine: ora l’OMS ne raccomanda l’utilizzo per tutti nei luoghi pubblici o dove non sia possibile mantenere il distanziamento fisico, ma fino a poche settimane fa sosteneva che non ci fossero elementi a sufficienza – o mascherine a sufficienza – per suggerirne l’uso generale e che anzi potessero creare un falso senso di sicurezza. Pertanto si raccomandava l’utilizzo di mascherine soltanto a chi si trovasse ad assistere familiari con covid o al personale sanitario. Con le mascherine consigliate per tutti, perché – ci hanno spiegato – siamo tutti potenziali asintomatici, le dichiarazioni sul rischio “molto raro” di trasmissione del virus da parte degli asintomatici sono sembrate contraddittorie.
IL MODELLO SVEDESE. A fine aprile, con l’Europa intera o quasi in lockdown, Michael J. Ryan, vicedirettore del Programma Emergenze dell’OMS, aveva speso parole di elogio per l’approccio “unico” adottato dalla Svezia nei confronti della pandemia. Il Paese aveva scelto di non limitare le uscite per decreto e affidarsi al senso civico dei cittadini, sospendendo solo alcune situazioni considerate particolarmente a rischio. La scelta si è tradotta nel tasso di mortalità più elevato di tutta l’area scandinava e in un’immunità di popolazione ben lontana dalla sperata immunità di gregge (ne abbiamo scritto qui). Probabilmente l’OMS voleva mettere l’accento sulla necessità di costruire un rapporto di fiducia con la popolazione, cercando di responsabilizzare i cittadini anziché proibire/punire, ma l’esito della gestione svedese ha reso difficile capire perché in questo caso il Paese fosse da considerarsi un modello.
NESSUN RIPENSAMENTO. Altri presunti passi indietro che hanno avuto grande risalto mediatico sono in realtà solo apparenti. È stato così per i guanti, ora mandati in soffitta – meglio lavarsi bene e spesso le mani – ma di fatto mai caldeggiati dall’OMS, che ne ha sempre sconsigliato l’uso al pubblico perché fattore di rischio per le autoinfezioni. O per l’idrossiclorochina, prima testata, poi sospesa alla luce dei risultati di un’importante revisione scientifica e infine di nuovo utilizzata nei trial, dopo che quella revisione è stata ritrattata: una precauzione, prima, e un ritorno poi, dovuti.
CHIEDIAMO LE COSE SBAGLIATE? Quelli che noi non addetti ai lavori percepiamo come “scandali” fanno parte in realtà dei normali processi di confronto, dibattito, errori e correzioni propri del metodo scientifico. La pressante necessità di risposte imposta dalla pandemia ha reso questo lavorio immediatamente consultabile, criticabile e amplificato, prima ancora che le ipotesi siano validate o smentite da una revisioni tra pari, o all’interno di convegni e studi clinici controllati. La scienza non ha sempre risposte per tutto: lasciare aperte le questioni più controverse (da parte degli scienziati) e non attendersi soluzioni facili (da parte del grande pubblico) sarebbero due utili esercizi di serietà.