Noi poveri mortali, non avvezzi alle auliche questioni giuridiche, abbiamo appreso in questi giorni che la pena per omicidio varia in presenza o meno di un rapporto consanguineo. La faccio breve: quattro anni fa, in una località nei pressi di Udine, un 53enne moldavo in evidente stato di ubriachezza uccise a coltellate il figlio.
La Corte d’assise d’Appello di Trieste confermò l’ergastolo inflitto dal giudice dell’udienza preliminare (GUP), ma la Cassazione lo ha annullato rispedendo gli atti alla Corte d’assise d’Appello di Venezia per quantificare nuovamente la pena che, in ogni caso, non dovrà scendere al di sotto dei 16 anni di reclusione.
Motivo? Il figlio ucciso non era naturale, bensì adottivo; e siccome una strampalata norma contenuta nell’art. 577 del Codice Penale ne differenzia la posizione in base al rapporto di sangue, la Suprema Corte ne ha preso atto rideterminando la pena. Noi che giuristi non siamo restiamo basiti. Un omicidio è un omicidio. Quella norma è sbagliata. E se il legislatore è pigro nel rimuoverla, ci aiutino i giudici a disapplicarla.