Ma non solo, da sempre le felpe sono l’oggetto del desiderio di chi è costretto a lavorare tutto il giorno in giacca e cravatta, sono un simbolo di libertà e di curata e consapevole trascuratezza.
Perché sì, vestirsi bene è molto bello, ma a volte ci sono momenti in cui non vuoi pensare se ti si vede un po’ la pancia, non vuoi star li a vedere se il vestito è stirato bene, se ti valorizza e così via. Tutto ciò che vuoi è metterti qualcosa che copra tutto ciò che sta sotto e fregartene del mondo. Tutti riflettono su tutto di questi tempi. Sembrano fatte apposta le ore dell’isolamento, a pensare, a ragionare, a rimuginare sullo scoramento che sale puntuale dopo l’ennesimo sguardo sul balcone del dirimpettaio e sulle aiuole fiorite del cortile. Chi può esterna le proprie preoccupazioni al compagno; chi non può azzarda solitarie psicanalisi di auto incoraggiamento suffragate dall’opinabile teoria ‘andrà-tutto-bene’; chi non riesce a stare da solo nemmeno con se stesso bombarda le orecchie con ultim’ore e dirette tv per sentirsi parte di una pena collettiva che fa del ‘mal comune mezzo gaudio’ la tesi inconsistente di avi ignoranti tanta afflizione.
Solo divani sfondati da una noia epocale sanno che significa la segregazione che ormai è ‘cinquantena e oltre’. Solo loro, i cuscini concavi per il peso di deretani inflacciditi, e lei, la felpa, testimone dello stato emotivo del soggetto che da quando è il mesto protagonista della storia, la indossa ormai quotidianamente.
Quanti saranno quelli si trovano a leggere queste righe e addosso non hanno un comodo tessuto elastico? Forse qualche lavoratore impossibilitato allo smart working, in pausa tra una mansione e l’altra necessaria per mandare avanti il Paese immobile, ma lui e basta, perché poi tutti adesso portano un pratico pantalone e una felpa avvolgente, siano essi spaiati o coordinati, consunti o nuovi di pacco portato dal corriere. E se pure è in programma una videochiamata che esige una certa eleganza per il mezzo busto, anche allora, sotto le scrivanie, è tutta un’anarchia pantofolaia, refrattaria a mocassini e tacchi, a tailleur e calzoni fresco lana, mai come ora inutili al decoro dell’immagine condivisa.
Nel suo Dizionario della Moda, Guido Vergari racconta che l’ideatore, il fiorentino Thayaht, lo considerava un “abito universale” nato in nome della protesta nei confronti del gusto borghese tipico dell’abbigliamento del primo dopoguerra. E anche il suo nome, ‘tuta’, altro non sarebbe se non un adattamento del francese tout-de-même, ovvero “tutti uguali”. Quello che siamo oggi, in fin dei conti, tutti uguali, tutti allo stesso modo disorientati dalle paure e dalle incertezze a cui un virus microscopico ci ha esposto. In questo periodo, qualcuno ha iniziato a dormire di giorno e a star sveglio la notte. Qualcuno, invece, non dorme quasi più. C’è chi ha dovuto riporre la sua vita in un cassetto perchè era fatta di impegni in mezzo alla gente e treni presi al volo. Ci sono bambini che hanno voglia di tornare a scuola e possiamo solo raccontar loro bugie perchè nessuno sa cosa accadrà.
Abbiamo aspettato la fase 2 come se fosse il dolce dopo un pranzo venuto male. L’abbiamo aspettata come se fosse la notte dell’ultimo dell’anno. Abbiamo sperato, sognato, prenotato treni, rivisto casa. Qualcuno si e qualcuno no. Sono morte migliaia di persone, però, e questa non era una guerra. E, ancora oggi, troppe persone continuano a morire. Il festino al mare, le cene di gruppo, i ritrovi sotto casa potete ancora rimandarli. Se non per paura, fatelo per rispetto. C’è chi, purtroppo, continua a morire. E le cose brutte, purtroppo, non accadono soltanto lontano da noi.
Quando tutto questo finirà, vorrei che tutte le persone che sono arrivate a leggere queste poche righe se non lo hanno ancora fatto, avessero la possibilità di andare dalla persona che più hanno pensato e che seppur a distanza ha fatto parte della loro quotidianità. Vorrei che ognuno avesse la possibilità di poter dire, grazie.
Io lo farò, e forse lo sto gia facendo con questo articolo, per la prima volta non mi tirerò indietro. “Grazie perchè ci sei sempre stato, perchè la tua felpa non mi ha mai fatta sentire sola, eri sempre lì, a due passi dal cuore… a farmi bene al cuore. Perchè con te tutto questo faceva meno male, perchè sapevo che c’eri , sapevi che c’ero, e bastava questo. Conta solo questo. Vorrei anche dirti che quando torneremo alla normalità la tua felpa non te la restituirò ma sicuramente ti abbraccerò un po’ di più, ti dirò “ti voglio bene”, perchè sai che sono di poche parole e non sono romantica. Quando tutto questo finirà non darò più niente per scontato , perchè le persone che vivono e vincono nel nostro cuore sono quelle che hanno vissuto questo periodo con noi, facendoci sentire importanti come sempre, come se nulla fosse cambiato, perchè nulla è cambiato, anzi, qualcosa sì, l’essere “Noi nonostante la distanza”. Questo periodo ci è servito per capire un po’ di cose. Per capire chi siamo, chi eravamo, chi saremo. E chi merita di stare nelle nostre vite.
Perchè quando tutto questo finirà (perchè nonostante tutto, nonostante l’attesa, nonostante le brutte notizie e tutto ciò che succede ancora dopo mesi, un giorno finirà), vorrei vederti felice, con quegli occhi che illuminano tutto e parlano da soli. Perchè finirà, e il nostro cuore batterà all’impazzata. Felice. Come non lo è mai stato. E sarà come tornare a vivere per la prima volta. Battito dopo battito. Un battito felice alla volta. Spero insieme, come sempre e più di sempre. ”
E se pure Anna Wintour, direttrice di Vogue e ‘papessa’ della moda per antonomasia, è arrivata a concedersi al pubblico con tanto di pantalone ginnico e a livellare la sua fama con l’anonimato dell’ultimo follower in tuta come lei, significa che davvero qualcosa è cambiato, che “il momento che stiamo attraversando è turbolento, ma ci offre la possibilità unica davvero di aggiustare quello che non va, di togliere il superfluo, di ritrovare una dimensione più umana”, per dirla con le parole di Giorgio Armani, che davvero basta poco, basta meno per campare meglio. Una tuta ne è la dimostrazione. “