Procida, l’isola di Arturo
«Le isole del nostro arcipelago, laggiù, sul mare napoletano, sono tutte belle. Le loro terre sono per grande parte di origine vulcanica; e, specie in vicinanza degli antichi crateri, vi nascono migliaia di fiori spontanei, di cui non rividi mai più i simili sul continente. In primavera, le colline si coprono di ginestre: riconosci il loro odore selvatico e carezzevole, appena ti avvicini ai nostri porti, viaggiando sul mare nel mese di giugno.
Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie chiuse fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, coperte da ciottoli e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere. Fra quelle rocce torreggianti, che sovrastano l’acqua, fanno il nido i gabbiani e le tortore selvatiche, di cui, specialmente al mattino presto, s’odono le voci, ora lamentose, ora allegre. Là, nei giorni quieti, il mare è tenero e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada. Ah, io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei d’essere uno scorfano, ch’è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in quell’acqua.
Intorno al porto, le vie sono tutte vicoli senza sole, fra le case rustiche, e antiche di secoli, che appaiono severe e tristi, sebbene tinte di bei colori di conchiglia, rosa e cinereo […]. Nel nostro porto non attraccano quasi mai quelle imbarcazioni eleganti, da sport o da crociera, che popolano sempre in gran numero gli altri porti dell’arcipelago; vi vedrai delle chiatte o dei barconi mercantili, oltre alle barche da pesca degli isolani […]. Mai, neppure nella buona stagione, le nostre spiagge solitarie conoscono il chiasso dei bagnanti che, da Napoli e da tutte le città, e da tutte le parti del mondo, vanno ad affollare le altre spiagge dei dintorni. E se per caso uno straniero scende a Procida, si meraviglia di non trovarvi quella vita promiscua e allegra, feste e conversazioni per le strade, e canti, e suoni di chitarre e mandolini, per cui la regione di Napoli è conosciuta su tutta la terra».
(E. Morante, L’isola di Arturo, Torino, Einaudi, 1995, pp.12-4).
L’isola di Arturo è il secondo romanzo di Elsa Morante pubblicato nel 1957 e vincitore del Premio Strega dello stesso anno. Nel 1962 il romanzo ha ispirato il film omonimo per la regia di Damiano Damiani. La storia narra la biografia di Arturo Gerace, dalla nascita fino ai sedici anni, epoca trascorsa sull’isola di Procida, nell’arcipelago campano. E’ un romanzo che esprime l’incanto di quei luoghi, la ribelle adorazione del padre visto come un eroe. Arturo, che di lasciare la sua isola, non mondana, non affollata, non turistica, adatta alla sua crescita interiore, difficile e complessa, non ci pensava affatto. Fino all’incontro con un amore difficile, proibito… e alla scoperta scioccante di un padre diverso dalle sue fantasie.
Tra il 1956 ed il 1957, Elsa Morante, soggiornò a Procida nei giardini della pensione “Villa Eldorado”, oggi diventata Parco Letterario. La scrittrice era affascinata dai luoghi e dalle genti sia del capoluogo campano sia dell’intero Golfo.
“Napoli è tante cose, – diceva – e molti sono i motivi per cui la si può amare o meno, ma soprattutto Napoli è una grande capitale, ed ha una stupefacente capacità di resistere alla paccottiglia kitsch da cui è oberata, una straordinaria possibilità di essere continuamente altro rispetto agli insopportabili stereotipi che la affliggono”.
A Procida vi arrivò all’inizio degli anni ’40, rifugiatasi qui insieme al neosposo Alberto Moravia per scappare agli orrori del conflitto mondiale.
Procida ispiratrice, dunque, luogo dell’innocenza perduta e delle illusioni cadute, isolotto verde tinto di blu intenso, punteggiato di magnifici giardini ombreggiati da pergolati, come quello nel quale la Morante elaborò le sue pagine più belle, quelle che narrano di Arturo Gerace, il ragazzino innamorato dell’avventura