Frutta di Martorana, minne, cannoli, biscotti ricci, sospiri e sfogliatelle non sono solo i protagonisti di antiche tradizioni dolciarie regionali (soprattutto siciliane) ma testimonianze della storia segreta di tante vite femminili trascorse all’ombra dei chiostri: a volte per vocazione, altre per costrizione, come accadeva alle figlie cadette delle nobili famiglie, costrette a prendere i voti.
Realizzare dolci straordinari per gusto, creatività e bellezza si è rivelata per molte suore la sola forma di libertà dalle regole monastiche, l’occasione di incanalare la propria spiritualità in una materia in un certo senso «peccaminosa», l’unico contatto con il mondo e la possibilità di lasciare una traccia, se pur effimera, della loro esistenza.
Le cucine dei monasteri sono state i primi laboratori di pasticceria della storia: un’eredità che non è andata perduta, ma ha ispirato generazioni di pasticcieri, e che in alcuni conventi continua a essere tramandata alle sorelle di oggi. Come nel Monastero di Santo Spirito ad Agrigento, dove da secoli le monache cistercensi producono il cous cous al pistacchio, di origine africana ma fatto con prodotti locali. O come Il trionfo di gola (pan di Spagna, pasta di mandorle, pistacchi e canditi) che continua a essere preparato nella dolceria I Segreti del Chiostro, nell’ex Monastero domenicano di Santa Caterina a Palermo; e poi i biscotti ricci del Gattopardo, resi celebri dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ancora prodotti come allora nel convento di Palma di Montechiaro dalle monache benedettine del SS. Rosario.
Molteplici sono poi le versioni della frutta di Martorana, pasta di mandorle a foggia di frutta variopinta, delle celebri minne (a forma di seno) e anche dei cannoli, oggi specialità di tutta la Sicilia: da Savia a Catania, per esempio, da 120 anni la pasticceria di famiglia si tramanda la ricetta con il tocco della zucca bianca candita preparata dalle suore di clausura di Palermo. E infine ci sono i dolci nati per caso come la sfogliatella Santa Rosa (oggi specialità di Mario di Costanzo, Napoli) che prende il nome dal monastero (ora un hotel) a Conca dei Marini sulla Costiera amalfitana, che ricorda il cappuccio del monaco ed è farcita di crema pasticciera e amarene: la prima volta venne preparata con avanzi della dispensa. Perché sprecare il cibo è sempre stato un grande peccato.