Ridurre il numero dei parlamentari non è un tabù. Non è facendo della Costituzione un feticcio che metteremo in sicurezza la democrazia e personalmente non vedo un pericolo fascista dietro l’angolo. Vedo piuttosto una preoccupante compromissione delle istituzioni liberali e questo taglio così fatto, senza interventi complessivi e organici, ne è la manifestazione più acuta.
Il presupposto alla base dell’accordo sulla riduzione del numero dei parlamentari era un patto per le riforme che aveva al primo punto la nuova legge elettorale. In un anno non è stato fatto nulla, salvo poi approvare in poche ore un approssimativo testo base (il Brescellum), per giunta coi voti di una parte della maggioranza (PD e M5S) e senza il coinvolgimento delle opposizioni, che impone una soglia di sbarramento altissima, non reintroduce le preferenze e non corregge il taglio della rappresentanza che colpirà fino al 40% regioni come Basilicata, Campania, Puglia e Sicilia. Più che una riforma, è un colpo di mano per sedare polemiche e alimentare propaganda.
Il patto per le riforme includeva anche la riscrittura dei Regolamenti parlamentari e la ridefinizione dei delegati per l’elezione del Capo dello Stato. Cose che andavano discusse prime, non – forse, chissà quando – dopo. In democrazia la forma è sostanza e questa riduzione nei fatti è nient’altro che una violenta e arbitraria abolizione di seggi parlamentari che non incide qualitativamente sul processo legislativo. Un testo dopo la sua approvazione inizia un lungo iter burocratico-amministrativo, la cosiddetta “seconda fase delle leggi”. Lì bisognava intervenire snellendo le procedure, garantendo tempi certi, efficientando la macchina statale. Avere leggi dai nomi salvifici e taumaturgici non serve a nulla se poi mancano centinaia di decreti attuativi.
Ecco, una riforma seria si sarebbe dovuta occupare di questo. Invece si è preferito additare deputati e senatori come faccendieri spregiudicati, assenteisti incalliti, fannulloni buoni a nulla, un costo da sopprimere. Una logica spregiudicatamente anti-parlamentare, dal retrogusto di democrazia digitale, che guarda caso non intacca l’apparato governativo, non corregge gli sprechi (enormi!) di ministeri e sottosegretariati. L’anti-casta in auto blu a cui piace un Parlamento commissariato da decreti leggi e dove il taglio è l’ultimo fatale colpo.
Voterò NO al referendum.
Le inefficienze ci sono, e sono pure tante, ma non si riforma il Parlamento al buio, compromettendone le fondamenta stesse. É come dire che se la giustizia non funziona allora vanno aboliti i tribunali. Questo è il gioco del populismo. Quel populismo che, consapevolmente o meno, sta consegnando ai capi di partito un potere enorme, come mai prima d’ora, che sceglieranno i candidati tra le fila dei fedelissimi piuttosto che tra i competenti. Il tema è la qualità, non la quantità. Da rappresentante dei cittadini, il parlamentare diverrà rappresentante esclusivo del partito. Da qui al vincolo di mandato, in linea concettuale, il passo è breve.
Voterò NO al referendum perché questo è un voto politico e non può essere neutrale. Il risparmio sui conti pubblici è ininfluente, ridicolo (lo 0,007%), non si migliora la selezione della classe dirigente, manca una legge sul funzionamento dei partiti che garantisca il diritto alla partecipazione, la democrazia interna, una vera trasparenza.
Voterò NO affinché la realtà sia più forte del reality.