E’ un dibattito surreale, quello che sta avvenendo nel Paese sul tema della cittadinanza. La nuova legge in discussione al Senato, dopo essere stata approvata dalla Camera, è una conquista di civiltà. Ma assistendo al dibattito alimentato da alcune parti politiche mi chiedo se l’abbiano letta e se si rendano conto che, con il loro eventuale voto negativo, rischiano di togliere a migliaia di ragazzi un diritto fondamentale, come quello di sentirsi a casa nello Stato dove sono nati, cresciuti, vissuti, dove hanno frequentato le scuole, si sono istruiti, e di cui sono già da tempo parte integrante.
Questo è, infatti, quanto prevede la proposta in discussione, che erroneamente viene definita dello Ius soli. In nessuna parte della legge, infatti, c’è scritto che chi nasce in Italia è italiano di diritto. Quello è un sistema di acquisizione della cittadinanza che vige in altri paesi, come gli Usa. La proposta italiana è molto più temperata, ha cautele forse pure eccessive, e disegna semplicemente un sistema che tiene conto di elementi di fatto e di circostanze oggettive.
Con la nuova legge, infatti, se approvata, acquisisce la cittadinanza italiana per Ius soli solo chi è nato in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno sia in possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo. Un titolo difficile da ottenere. Un permesso di lungo periodo si dà a chi è in Italia da molto tempo, è integrato, ha i mezzi per sostenersi. Si tratta di nuclei familiari già perfettamente italiani nella loro vita quotidiana, che hanno dato alla luce bambini in Italia. Come negare a quei piccoli, che frequentano le scuole insieme ai nostri, che sono come i nostri figli, un diritto che è già un fatto?
Poi c’è il cosiddetto Ius culturae: può ottenere la cittadinanza chi sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia frequentato regolarmente, ai sensi della normativa vigente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale uno o più cicli scolastici. Quindi, ragazzi che hanno fatto qui le scuole elementari, le scuole medie: che sono cresciuti esattamente come i nostri figli, che hanno imparato la stessa lingua, le stesse materie, si sono formati nello stesso modo. Come si può sostenere che non siano italiani?
La legge vigente sulla cittadinanza risale al 1992. Garantisce la cittadinanza italiana a chi sposa un italiano e la rende acquisibile per chi vive in Italia da un certo numero di anni avendo certezze di casa e lavoro. Perché non offrire lo stesso diritto anche ai loro figli che, pur essendo nati qui, pur parlando spesso solo l’italiano, pur avendo fatto le scuole qui e pur non conoscendo altro Paese che questo, al compimento del 18esimo anno di età, rischiano di non avere un titolo per rimanere nel luogo dove sono sempre stati e di cui si sentono già cittadini?
Non un diritto in più, quindi, ma un elemento di giustizia. Negarlo significa non aver capito la legge o – peggio ancora – costruire una strumentalizzazione a fini di propaganda che, ancora una volta, scarica sui più deboli, crisi e paura.
Michela Rostan,DEPUTATO ART1