di Isaia Sales
Da soli i fondi europei non sono in grado di ridurre il divario, né tanto meno di avviare un processo di sviluppo. Essi, per il modo in cui in Italia e in Europa sono utilizzati possono tutt’al più avere una funzione anticiclica. Questa è l’accusa che oggi si può fare alle regioni meridionali, ad esempio la Campania, che non è stata in grado neanche di utilizzarli in funzione di un tamponamento della crisi iniziata nel 2008.
Si sostiene che nonostante questi “copiosi” interventi, il Mezzogiorno cresce “meno”: meno del passato, meno delle regioni del Centro Nord, meno della altre regioni europee in ritardo di sviluppo. Da ciò molti deducono che essi sono sprecati. La performance assai migliore delle altre regioni europee in ritardo di sviluppo, in particolare quelle tedesche, e fino alla crisi, quelle spagnole, è legata al miglior andamento complessivo di quelle economie. Se va male l’economia di un Paese, i fondi europei non sono in grado di invertire la rotta. Prova ne sia che il confronto fra gli andamenti negli ultimi 15 anni delle più forti regioni italiane rispetto alle più forti regioni europee, è altrettanto sconfortante.
Ma il punto di fondo è un altro. Quando i fondi strutturali riguardano un intero Stato membro dell’Unione (come nel caso della Polonia e di altri Paesi dell’Est o per molti versi di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda nel passato) essi sono per definizione “addizionali”: cioè apportano risorse aggiuntive ai bilanci nazionali, finalizzate allo sviluppo di diversi territori. E quei paesi li utilizzano come una specie di finanziamento aggiuntivo alle loro politiche nazionali già decise. Nel caso italiano, invece, essi apportano risorse che, per regola comunitaria, devono essere “addizionali” rispetto a quanto si fa solo in una porzione di territorio. A tal fine, lo Stato membro deve garantire all’Unione un ammontare concordato di risorse proprie, territorialmente mirate rispetto alle quali quelle europee devono aggiungersi. Il principio dell’ “addizionalità” è assai difficile da verificare. Ma nel caso italiano è certo che non è rispettato: per il ciclo 2000-06 l’Italia chiese una formale riduzione dell’addizionalità; per il 2007-13 una verifica intermedia ufficiale ne ha certificato il mercato.
I fondi strutturali sostituiscono normalmente la mancata spesa ordinaria, così come certificato dai recenti dati del Quadro Finanziario Unico costruito dal Dipartimento delle Politiche di Coesione, e con una percentuale crescente negli ultimi anni. La dimensione dei fondi strutturali è pari a meno della metà del totale della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno, e meno del 5% del totale della spesa pubblica. Appare molto difficile che un intervento di tale entità possa essere di per sé sufficiente a mutare le sorti di un territorio così ampio come il Mezzogiorno, senza una profonda azione di potenziamento dell’intervento nazionale di “sviluppo”, e di riqualificazione della spesa ordinaria, della scala di quello registrato negli ultimi15 anni ad esempio nella Germania dell’Est. In definitiva, le risorse comunitarie funzionano meglio in territori omogeneamente arretrati, non in una nazione dallo sviluppo duale, qual è l’Italia, dove con i fondi europei si fa una politica “a parte” rispetto a quello che vale per l’intero territorio nazionale. Vi è infine, un ulteriore importante elemento: macroregioni in ritardo di grandi Paesi, come il Mezzogiorno o la Germania Est, operano all’interno dei complessivi sistemi economici nazionali. Ogni intervento di stimolo alla domanda aggregata in queste macroregioni, produce effetti sia nel territorio obiettivo, sia in altre aree del Paese, dalle quali attiva flussi rilevanti di importazioni interregionali. In entrambi i casi, questo effetto è particolarmente forte: i fondi strutturali per il Mezzogiorno, producono anche un significativo effetto di economie del Centro-Nord Italia, positivo per l’intera economia nazionale, ma che ne riduce significativamente l’impatto diretto sull’area obiettivo.