Sono passati nove anni dall’ultima volta di Roberto Benigni al Festival di Sanremo solo che, quella volta, all’Ariston ci entrò in sella a un cavallo bianco. «Era per l’anniversario dell’Unità d’Italia» specifica il regista alla terza serata della settantesima edizione, accompagnato da una banda che suona la sua marcetta e che lo fa sentire scortato come «un capo di Stato». «È il più bel Sanremo che abbia mai visto» dice all’amico Amadeus prima di dirsi espertissimo sui settant’anni del Festival – «potrei indovinare tutti ai Soliti Ignoti» – e lanciare una frecciatina a Matteo Salvini aggiungendo che quest’anno a Sanremo «si può votare anche con il citofono».
Chi sperava, però, che il Premio Oscar si dedicasse a qualcosa di comico, che richiamasse la tradizione del Festival, si è trovato spiazzato quando Benigni ammette di voler proporre all’Ariston «la canzone più bella del mondo», «la canzone delle canzoni»: Il Cantico dei Cantici. Una «perla» che sta nella Bibbia e che porta alcuni a imbarazzarsi ancora perché parla di un amore carnale, di due bocche che si uniscono e di un amplesso che i simbolisti hanno cercato di camuffare parlando di altro, di immagini iperboliche che con il senso del testo non c’entravano niente. «È la prima canzone scritta nella storia dell’umanità, 2400 anni fa, altro che settantesimo» sottolinea Benigni prima di entrare nel significato del testo e parlare di «corpi frementi» e di baci memorabili. «È un poema dedicato alla femminilità» dice a un certo punto ipotizzando che l’autrice fosse, in realtà, una donna, fautrice di «un erotico santissimo».
L’unica provocazione del monologo arriva più o meno a metà, quando Roberto insiste sull’importanza di fare l’amore e di farlo sempre più spesso, anche all’Ariston: «Di amore ne facciamo molto poco, soprattutto oggi con i giovani che non fanno che parlare ma che, stringi stringi, alla fine non fanno niente. Io sarei per farne sempre di più. Anche qui all’Ariston in diretta: ci mettiamo qui, ci spogliamo e facciamo l’amore anche con l’Orchestra diretti da Beppe Vessicchio: una serata fantastica». Risate, applausi, poi silenzio per lasciare che Benigni legga i frammenti più significativi del Cantico dei Cantici – «è come un gender» -, quelle che lui definisce come un gioiello di rara bellezza: «È come se un orafo avesse costruito con le parole delle gemme lucentissime consegnandoci un diadema pronto per essere indossato». Le parole come diamanti, standing ovation, poi i saluti. Arrivederci al prossimo Festival.