di Massimiliano Amato
I precedenti dovrebbero rassicurare chi teme nuove fratture. Nella sua ormai secolare storia di divisioni e spaccature, la sinistra italiana s’è scissa sempre sotto l’effetto di formidabili pressioni esterne. A Livorno, nel 1921, Gramsci, Togliatti e Bordiga s’impegnarono semplicemente ad applicare la linea che il Comintern aveva stabilito due anni prima sulle ceneri del fallimento della Seconda Internazionale. Palazzo Barberini nel 1947 fu, in un mondo rigidamente diviso in due blocchi con il nostro Paese nel poco invidiabile ruolo di cerniera, il tentativo (riuscito) dell’amministrazione Usa di sottrarre un pezzo della tradizione socialista italiana (da sempre integralmente marxista: tale era anche Peppino Saragat) alle suggestioni provenienti da Est. Perfino la nascita del Psiup nel 1964 fu eterodiretta dai “compagni” d’oltrecortina, preoccupati delle conseguenze di un ingresso organico dei socialisti nell’area di governo. L’ingerenza dovette essere molto forte, perché riuscì a piegare finanche la convinta opposizione di Togliatti. Al quale non sfuggiva il particolare che la fuoriuscita dei “carristi” dal Psi avrebbe finito col certificare il trionfo della linea “autonomista” di Nenni e Lombardi. L’unico (e ultimo in ordine di tempo) strappo fuori da questo perimetro (non si trattò, tecnicamente, di una scissione, ma di una sorta di “separazione consensuale”) è stata la nascita del Partito della Rifondazione comunista dopo il congresso di scioglimento del Pci. E, visti gli sviluppi di quella storia, si tratta di una vicenda decisamente poco incoraggiante.
È da escludere categoricamente che, nell’odierno scacchiere internazionale ci sia una qualche potenza interessata alle dinamiche interne del Pd, tanto diverse appaiono le condizioni storiche di contesto che incoraggiarono le precedenti scissioni. E il carattere maggioritario assunto dalla democrazia italiana sconsiglia passi azzardati. Certo, la vocazione “al minoritarismo” di buona parte della sinistra di casa nostra non è un’invenzione di Galli della Loggia, che per averla recentemente riesumata sul Corriere, s’è beccato un bel po’ di reazioni tanto indignate quanto ingiustificate. Sopravvive, anzi, come tara genetica e in quanto tale continua ad essere tramandata di generazione in generazione. Tuttavia, per una scissione servono anche motivazioni forti, un progetto se non alternativo almeno diverso da quello dal quale ci si accomiata, una “visione”, per dirla con una parola abusata. Occorre, poi, un minimo di accordo anche sugli approdi. Ed è veramente difficile, quasi impossibile, trovare un filo concettualmente e politicamente unitario capace di tenere insieme il ritorno all’Ulivo vagheggiato da Rosy Bindi, il Partito del lavoro che sarebbe il naturale sbocco della trasformazione della Fiom di Maurizio Landini in soggetto politico, il movimentismo radicale 2.0 di Pippo Civati, le aristocratiche nostalgie, non si capisce bene di quale passato, di Gianni Cuperlo e, infine, i mal di pancia dell’antica (e prestigiosa) “ditta”, Bersani in testa, e della vecchia nomenclatura brutalmente rottamata. Per soprammercato, ad incrementare la confusione contribuisce, fuori dal recinto del partito, Nichi Vendola con il suo “Human Factor”, ennesimo progetto di straordinaria suggestione ma sostanzialmente indefinito.
È vero: all’esterno del circuito dell’attuale sistema di rappresentanza esiste uno spazio che va allargandosi sempre più di elezione in elezione con la crescita esponenziale del partito del “non voto”. Ma non è assolutamente scontato che esso rappresenti la terra promessa di quanti, nei passaggi parlamentari sul Jobs Act, hanno detto no a Renzi e alla maggioranza del partito in nome “della dignità della persona e della civiltà del lavoro” (cit. Cuperlo). Per le Regionali emiliane in cui pare abbastanza agevole quantificare quanta sinistra (termine che continuiamo a utilizzare per approssimazione, non avendone a disposizione uno meno banale) si è rifugiata nell’astensione, ci sono, infatti, quelle calabresi e, soprattutto, i risultati delle ultime Europee (oltremodo penalizzanti per il centrodestra, Forza Italia in primo luogo) che si ribellano ad interpretazioni troppo scontate. Non disponendo (allo stato) di una plausibile (e univoca) “ragione sociale” e difettando di certezze sull’effettiva consistenza del proprio retroterra elettorale non si capisce, quindi, da dove le varie opposizioni interne al segretario – premier possano ricavare la spinta necessaria per una fuga dal Nazareno.
Ragionando per paradossi, d’altronde, il renzismo sembra essere l’indicazione di una via d’uscita dal tunnel nel quale i gruppi dirigenti che hanno gestito tutti i passaggi dalla morte del Pci alla nascita del Pd brancolano da 25 anni. Discutibile finché si vuole sul piano politico, la definizione di “fase suprema del berlusconismo” che Angelo d’Orsi dà del fenomeno su uno degli ultimi numeri di “MicroMega” non fa una grinza dal punto di vista dell’osservazione empirica. Come il Cavaliere ha fornito una casa, un senso, e alla fine anche un blocco sociale finalmente compatto ad una destra per buona parte della storia repubblicana maggioritaria nel sentimento del Paese, ma minoritaria e marginale in politica (cit. Giuliano Ferrara), così il “non progetto” di Renzi, vale a dire lo svuotamento completo del partito e la sua trasformazione in un comitato elettorale permanente, rappresenta per ora una risposta (non l’ultima, si spera) alle tre grandi crisi, singolarmente convergenti, di questo primo scorcio di terzo millennio: la crisi della democrazia, la crisi della rappresentanza, la crisi della sinistra, o almeno della sua declinazione otto e novecentesca. Con Renzi il Pd si acconcia a rappresentare la maggioranza di quella minoranza di elettori che ancora si reca alle urne: giudicando “un fattore secondario” l’alto tasso di astensionismo, il segretario – premier ha fatto chiaramente capire che cosa ha in mente. Si tratta di un’impostazione abbastanza in linea con quella delle altre leadership democratiche occidentali. Il punto è: come contrastarla? Le vecchie parole d’ordine condannano all’irrilevanza; se la sfida si chiama “partito della nazione”, le opposizioni interne hanno il dovere di raccoglierla e giocarsi la partita. Combattendo, se possibile, la tentazione di bucare il pallone. O, peggio, di abbandonare il campo.