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Somalia, 30° anniversario della Battaglia del checkpoint pasta pasta, il Ten. Col. Paglia si racconta

A trent’anni dalla battaglia Il Tenente Colonnello Gianfranco Paglia, è medaglia d’Oro al Valor Militare, dopo i fatti accaduti a Mogadiscio, il 2 nel luglio 1993. Sottotenente paracadutista ha partecipato alla missione IBIS UNOSOM II, in Somalia.

Ten. Col Gianfranco Paglia, dal quel 2 luglio sono trascorsi 30 anni, vuole raccontarci i fatti?

I fatti sono presso più noti, l’alba del 2 luglio 1993,  parte “Canguro 12”. Per gli uomini dell’Operazione ibis significa l’ennesimo rastrellamento in un centro abitato, alla ricerca di armi. Un’operazione di routine, anche se in grande stile è avviata con inusuale preavviso di poche ore. Non sono ancora le 06:00; la colonna si muove, si snoda per le vie semideserte di Mogadiscio, supera il checkpoint “Pasta” e prende posizione all’interno della zona di operazione. L’obiettivo del rastrellamento, venne svolto casa per casa. Proprio per questo lo schieramento messo in atto dal generale Bruno Loi è imponente. Sapevamo di essere in missione di pace, ma anche una operazione di tipo peacekeeping tra due fazioni. Il rastrellamento è quasi terminato. I paracadutisti hanno scoperto parecchi depositi di armi. Arriva l’ordine di rientrare; I blindati invertono la marcia e si avviano per uscire dal quartiere. Una parte della colonna si dirige verso checkpoint FERRO, è il raggruppamento ALFA che deve rientrare al Porto Vecchio, i militari del Gruppo Bravo, muove in direzione di PASTA, per tornare a Balad. Sembra tutto tranquillo, troppo tranquillo. La testa della colonna si avvicina già a Balad, quando iniziano i primi incidenti. Improvvisamente si odono le urla di nugoli di donne e bambini che avanzano verso i mezzi ancora rimasti in zona. Compaiono le prime barricate, copertoni in fiamme, auto ribaltate e ogni sorta di suppellettili rallentano la marcia dei nostri militari. Nell’aria c’è qualcosa che non va. In pochissimi minuti le barricate si fanno più consistenti. Quella che all’inizio sembrava una delle tante manifestazioni contro le Nazioni Unite a Mogadiscio, si rivela una imboscata in piena regola. Quella mattina a Mogadiscio, si scatena l’inferno. I mezzi procedono lenti, la protesta dei somali impedisce di mantenere distanze e velocità di sicurezza. “Indietro, andate via”, urlano i militari italiani, in cambio ricevono insulti e sassate. Dietro la cortina di donne e bambini, compaiono i Kalashnikov e gli RPG. I manifestanti fanno da scudo, e alle loro spalle i cecchini iniziano a bersagliare i soldati. Momenti di sconcerto. Nessuno se lo aspettava. L’intesa tra italiani e somali si è rotta. Dopo 50 anni il nostro paese si trova impegnato in uno scontro armato, per di più in una missione di pace. Abbiamo atteso che le donne ed i bambini si allontanassero prima di rispondere al fuoco, diversamente, avremmo avuto qualche problema il giorno seguente a guardarci allo specchio…

Arrivano comunque le prime reazioni. Superato l’effetto sorpresa rispondiamo al fuoco. L’imboscata però è ben congeniata, i nostri sono accerchiati, le strade sono interrotte delle barricate, dalle finestre e dagli angoli defilati, i miliziani di Aidid sparano sui militari italiani. Mentre ci defiliamo arriva da una strada laterale un colpo mortale. Un RPG colpisce in pieno un veicolo corazzato, dall’impatto resta vittima il paracadutista Pasquale Baccaro. Coordinai l’azione, mentre il VCC più avanzato, allo scoperto, al centro dell’incrocio stradale, copre i soldati a terra. Il sottotenente Andrea Millevoi è il capo equipaggio della Centauro, coordinava l’azione, sporgendo il busto fuori dalla torretta, per meglio controllare la situazione. Vene colpito da una raffica e muore sul colpo. Cosi come anche l’incursore Stefano Paolicchi rimane vittima negli scontri. Tornammo verso Ferro, per lasciare feriti e vittime e facemmo ritorno verso Pasta, dove ci fù l’ennesimo scontro a fuoco, dove rimasi ferito.

Da venerdì 2 luglio, giorno del mio ferimento, ho riaperto gli occhi il lunedì 5, ero tracheostomizzato, trovandomi al mio capezzale mio cugino e mio zio, che nel frattempo erano volati a Mogadiscio, per darmi l’ultimo saluto perché le condizioni mediche erano critiche,  Erano accompagnati da un psicologo americano che durante la visita, notò una mia reazione,  fù lo stesso dottore, a chiedere al Generale Loi, comandante del contingente,  di far restare i mie parenti e farli venire in visita. Cosi per diversi giorni vennero a trovarmi, di fatto il 13 luglio, fui trasferito con un aereo militare a Roma, esattamente al Policlinico Militare Celio, arrivato a Roma,  dopo le prime visite mediche,  mi venne detto che non mi sarei più alzato dal letto,  furono effettuate delle ricerche per trovare una struttura idonea ad intervenire ed emerse un centro in in Svizzera, dopo diverse consulenze e anche incomprensioni, mi fu detto chiaramente,  che non sarei più tornato a camminare. Ricordo che mi vennero le lacrime agli occhi, il capo del reparto mi disse parlando in italiano:  se vuole,  pianga, gli risposi, che non sarebbe servito a nulla…Dal giorno successivo da buon militare ho ripreso le terapie,  ed eccomi qui.

Per i fatti accaduti le è stata attribuita la Medaglia d’Oro al Valor Militare, quale è stata la sensazione vedersi riconosciuto la più alta onorificenza per un militare?

All’inizio, non metti bene  fuoco,  fu fatto la cerimonia di consegna a Viterbo, presso l’attuale sede della Scuola Marescialli dell’Esercito, in merito alla cerimonia, non nego che c’era un velo di tristezza per la Medaglie assegnate alla memoria, ricordo che erano presenti i genitori di Stefano Paolicchi, Pasquale Barcaro e Andrea Millevoi, i tempi erano diversi basta considerare che non accadevano queste cerimonie, dal II° conflitto mondiale,  personalmente, ho realizzato dopo l’importanza ed il valore, anche se secondo me come ho sempre detto in questi trent’anni ho fatto solo il mio dovere, sono solo stato più fortunato perché sono vivo.

Motivazione medaglia d’oro-

«Comandante di plotone paracadutisti, inquadrato nel contingente italiano inviato in Somalia nell’ambito dell’operazione umanitaria voluta dalle Nazioni Unite, partecipava con il 183º Reggimento paracadutisti “Nembo” al rastrellamento di un quartiere di Mogadiscio. Nel corso dei successivi combattimenti, proditoriamente provocati dai miliziani somali, con perizia ed intelligenza concorreva con le forze alle sue dipendenze allo sganciamento di alcuni carri rimasti intrappolati nell’abitato. Dopo aver sgomberato con il proprio veicolo corazzato alcuni militari feriti, di propria iniziativa si riportava nella zona del combattimento e, incurante dell’incessante fuoco nemico, coordinava l’azione dei propri uomini, contrastando con l’armamento di bordo l’attacco nemico. Per conferire più efficacia alla sua azione di fuoco si sporgeva con l’intero busto fuori dal mezzo esponendosi al tiro dei cecchini che lo colpivano ripetutamente. Soccorso e trasferito presso una struttura sanitaria di Mogadiscio, reagiva con sereno e virile comportamento alla notizia che le lesioni riportate gli avevano procurato menomazioni permanenti. Chiarissimo esempio di altruismo, coraggio, altissimo senso del dovere e saldezza d’animo. Mogadiscio, 2 luglio 1993[»

Ascoltare la sua storia è emozionante e fa emergere tanto coraggio, qual è il suo rapporto con il coraggio?

Non mi sono mai definito un coraggioso, perché ritengo che il vero coraggio sia stato quello di sacrificare la propria vita da parte di chi non c’è più. Il mio rapporto con il coraggio è semplice, mi reputo una persona umile e semplice per cosi come sono. Nonostante la mia condizione, ho sempre visto la vita come un bicchiere mezzo pieno, perché comunque sono vivo ed ho una famiglia, tra le mie priorità, ci fu quella di ritornare in servizio, resta il fatto che è molto semplice guadare chi sta meglio, preferisco guardare chi sta peggio, apprezzi di più quello che hai, sostanzialmente è questo che racconto nelle scuole quando incontro i ragazzi, fa parte della vita. Secondo me, bisogna avere coraggio crescere i figli condurre una famiglia, perché oggi giorno non è semplice. L’importante è farlo con l’esempio, quindi più il coraggio,  direi l’esempio, in quanto ti permette di andare avanti poi tutto viene di conseguenza.

Quando è in rappresentanza spesso si nota che viene avvicinato da militari e civili che vogliono salutarla, stringerla la mano, qualcuno è scoppiato in lacrime.

Ho trovato grande imbarazzo,  in quanto non sai cosa fare e cosa dire, ma anche grande rispetto nei loro confronti, penso che per un soldato lasciarsi andare così non deve essere semplice. Recentemente festeggiavo il mio compleanno in compagnia della mia famiglia ed alcuni amici, ricordo che mia figlia mi ha detto: io a mio padre non l’ho mai visto piangere, ciò non significa che sono un super eroe, credo diversamente che i sentimenti è giusto esternarli. In diverse occasioni mi è capitato mentre incontro persone che qualcuno si mettesse a piangere, ho cercato di trasmettere un messaggio di serenità facendo capire che tutto sommato stavo bene… quindi non dovevano piangere ma bensì sorridere ed essere felice perché sono vivo.

È rientrato in servizio con il Ruolo d’Onore quanto è stato importante per lei e quanto lo è per chi come lei rimane vittima del dovere avere ancora la possibilità di indossare l’uniforme?

In realtà siamo in tanti ad essere iscritti a Ruolo d’Onore in Italia, il discorso è ritornare in servizio, è fondamentale lo è stato per me e per tanti ragazzi che sono stati abilitati a rientrare in servizio, è come ritornare a vivere. Siamo riusciti ad aprire una strada che altri Paesi non è possibile. Gli stessi americani come gli inglesi, non contemplano questo ruolo, su questo bisogna dire che l’Italia è precursore. L’importanza del mio rientro in servizio l’ho vissuto subito in una maniera particolare, nel 1997, venni impiegato subito in Bosnia, poi da li non mi sono più fermato, per esempio in Iraq quando facemmo attività con gli americani, mi guardavano con un’aria di curiosità ma anche con grande rispetto e perché no con un pizzico di invidia, basta considerare che i veterani vittime di guerra dopo due anni rimangono a casa. In missione mi sono sempre speso a favore delle popolazioni locali, occupandomi del settore umanitario avevo modo di andare in giro conoscere luoghi, persone e realtà che mi hanno arricchito molto in termini umani e culturale. Ricordo in Bosnia nel 1997, quando andavo nei villaggi e mi vedevano in carrozzina chiedevano l’aiuto dell’interprete, quando realizzavano, le persone non esitavano a mostrami le loro ferite da guerra, cosi come in Kosovo, andando nelle scuole palesavo di far riaffiorare il rispetto reciproco che ci doveva essere tra le etnie, mentre in Iraq sia lo scenario che il clima mi riportavano in Somalia.

È impegnato spesso con i giovani presso complessi scolastici e soprattutto viene chiamato a presenziare ai giuramenti di diverse forze armate, cosa sente di dire ai giovani e a chi intraprende la carriera militare?

Non siamo l’ufficio del lavoro, è necessario avere le giuste motivazioni per giurare fedeltà alla patria e di onorare quel giuramento fino alla fine, fosse anche con l’estremo sacrificio, perché la vita militare è sacrificio, quindi ai miei figli non ho mai palesato di scegliere la vita militare se non sentono questo desiderio direi chiamata. Bensì di essere liberi di scegliere quello che più sentono di percorrere come formazione.  I ragazzi hanno bisogno di essere indicati, spesso dicono che i giovani non hanno valori, di fatto credo che i ragazzi sono ricchi di valori e buoni sentimenti, vanno semplicemente indirizzati, un tempo questo lavoro era insito alle famiglie, oggi sempre più le famiglie sono forse un po’ distratte.

Qual è il suo rapporto con la bandiera italiana?

A casa mia è issata sempre a qualsiasi condizione climatica, per me il tricolore è tutto, a casa mia c’è da sempre, è nata con mio padre che la teneva issata sul balcone, quando è andato via ho continuato io. Tutti i veterani americani hanno la bandiera fuori porta, noi siamo abituati a sventolare il nostro tricolore spesso in coincidenza di eventi sportivi o in particolare quando gioca la nazionale di calcio, quindi per me significa essere italiani, amare la nostra patria. Quando ho creato un pennone porta bandiera, vennero un gruppo di amici carabinieri che mi donarono la bandiera, con le nostre famiglie abbiamo issato la bandiera con un atto semplice ma sentito.

Il Tenente Colonnello nel luglio 2013 è stato chiamato come consulente da diversi ministro della Difesa, non ultimo il Ministro, Guido Crosetto lo ha voluto quale suo consigliere.  Nel 2016 è stato nominato capitano della prima squadra paraolimpica della Difesa, ed è stato eletto consigliere nazionale della Federazione Italiana Tennistavolo.

Dopo un’esperienza parlamentare nel 2008, è stato membro della commissione Difesa. A fine legislatura è rientrato in servizio presso il Comando Brigata Bersaglieri Garibaldi in Caserta. Nel 1992, ha frequentato la Scuola allievi ufficiali di complemento presso Cesano, e successivamente il corso paracadutista. Venne assegnato al 186º Reggimento paracadutisti Folgore”.

Recentemente, è stato in Libano, nella Base di Shama (sud del Libano), dove è di istanza la Brigata Paracadutisti Folgore, per la commemora battaglia checkpoint pasta. Un ospite d’onore ha accompagnato il Ten. Col. Paglia, si tratta del Sig.  Gen. di  c.a. Carmine Masiello, Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa. Una cerimonia per ricordare i caduti italiani in Somalia, impegnati trent’anni fa in una missione di pace dell’Onu, nell’approssimarsi della ricorrenza del 2 luglio 1993,  durante la cerimonia il Ten. Col. Gianfranco Paglia in una breve locuzione ai Reparti schierati ha dichiarato: «oggi è una giornata particolare, ricordare quello che è avvenne trent’anni fa, in teatro operativo, farlo in una missione ONU, come allora, ormai sono passati trent’anni, tante cose sono cambiate, però quello che non è cambiato e non cambierà mai, è lo spirito la voglia la determinazione che porta ad ognuno di noi ad indossare l’uniforme, a giurare fedeltà alla Repubblica, ed o orare con il giuramento fino alla fine. Non ho paura di essere smentito, se dicessi, che questo ci rende diversi dagli altri, perché sfido chiunque a mettere a repentaglio la propria vita per il proprio collega, per il proprio amico, oltre che per coloro che non conosciamo. In questi trent’anni, ho sempre ringraziato per esserci, indipendentemente dalla carrozzina e mai lo farò, perché la cosa più importante era quella indossare l’uniforme nuovamente e ritornare in servizio ed è quello che ho fatto. Ho servito il mio paese fino in fondo credendoci, ed è quello che fate voi tutti i giorni, in silenzio, con grande umiltà, con lealtà, con onore e determinazione e con sacrificio. Ringrazio la Folgore per aver organizzato una cerimonia semplice ma densa di emozioni in una base intitolata ad Andrea. Una commemorazione molto sentita che ci ha unisce nel desiderio di non dimenticare mai”. Sono fiero ed orgoglioso di essere qui, questa è la mia famiglia.»

Il Ten. Col. Paglia, in questi trent’anni, ha portato in giro non solo una testimonianza di forte attaccamento alle istituzioni che ha ben rappresentato con onore,  all’ uniforme che indossa sempre con rispetto, inoltre dalle sue parole si avverte l’incoraggiamento a fare bene e sempre nella piena consapevolezza di quello che si rappresenta. L’Ufficiale, quando è invitato a presiedere a giuramenti dei vari corsi,  siano essi di Graduati, Marescialli o Ufficili delle Forze Armate e Forze dell’Ordine, pone in evidenza sempre come servire la propria nazione è l’essenza stessa del suo stato di servizio e quindi un onore imprescindibile, il suo attaccamento alle istituzioni è pregno di valori e significato autentico di appartenenza alla componente militare che ne ha fatto non solo motivo di vita ma anche di chiarissimo esempio di chi ha saputo ben interpretare la vita nonostante i disagi che sono scaturiti da quel lontano 2 luglio, oggi a distanta di trent’anni, nonostante i fatti accaduti, riesce sempre a trovare un sorriso una parola per chiunque dovesse incrociare il suo magnetico sguardo che trasmette tra l’altro serenità ed orgoglio.

A cura di: Raffaele Fattopace

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