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Stadio, se impariamo a farne a meno

Stadio, se impariamo a farne a meno

Approfitto dell’occasione – il ritorno in campo dei campioni d’Europa, che non ringrazieremo mai abbastanza – per affrontare un tema che considero addirittura vitale. Porcaputténa, il problema è davvero serio. Da ieri è obbligatorio il green pass per i trasporti a lunga percorrenza, autobus, treni ad alta velocità, aerei, navi, mezzi che risultano spesso affollatissimi. Al chiuso di un autobus o di un treno si può stare anche ogni giorno senza limitazioni, basta possedere la certificazione verde, mentre all’aperto di uno stadio – una, massimo due volte la settimana -, no. Il problema è serio – dicevo – perché, al di là dei mancati ricavi da biglietteria che guastano i conti già ultrasofferenti delle società, si corre il rischio che gli appassionati si abituino alla rinuncia, alla comodità dell’assenza, insomma imparino a fare a meno dello stadio, o del palasport, con effetti rovinosi in termini di mancata fidelizzazione.

Ne sanno qualcosa gli esercenti di cinema e teatri, il cui futuro sembra addirittura segnato: inimmaginabili i danni sia culturali, sia sociali. Il Governo, che giustamente si deve occupare della salute degli italiani, dovrebbe porre l’attenzione anche sull’aspetto della formazione di un popolo attivo, interessato, partecipe.

Nelle prime due giornate del campionato – ma il discorso va esteso anche ad altri sport i cui tornei stanno per cominciare – l’affluenza è stata comunque inferiore alle attese e alle speranze, al punto che i soliti intelligentoni si sono riempiti la bocca con sciocchezze di questo genere: «Pretendete che riaprano gli stadi e non siete nemmeno capaci di riempirli per metà».

Da tempo trattiamo con la forza dei numeri il tema della crisi del calcio italiano e più in generale dello sport. E non devono trarre in inganno le medaglie olimpiche e paralimpiche, né l’Europeo vinto a luglio. Siamo su piani e valori differenti: per le imprese noi italiani siamo attrezzati, è sull’ordinario che facciamo ridere.

Le proteste che in questi giorni accomunano Italia e Francia, giustamente preoccupate dalla minaccia della quarta ondata, a parte certi eccessi delinquenziali registrano manifestazioni di malessere da covid, da segregazione malvissuta o limitazione degli atti quotidiani nella presunta normalità consentita dalle raccomandazioni. Queste, spesso derise. Se trasformate in regole, spesso denunciate come disposizioni dittatoriali.

Senza finzioni, né retorica, diciamo da tempo quanto lo sport sia stato utile nell’aprire un fronte di svago, di allegria, addirittura di entusiasmo grazie a imprese che sono state realizzate in forme addirittura provvidenziali. Se è vero, com’è vero, che l’attività sportiva trasmette benefici fisici, è altrettanto documentabile il benessere spirituale che produce anche in libertà. Non è la piazza, spesso invasa da speculatori ideologici, il luogo dove lasciarsi andare allo svago irrazionale. Fin da ragazzo, mi ha colpito la scritta ancor oggi presente sul frontale neoclassico dell’Arena del Sole, il centralissimo cinema della mia Bologna: “Luogo dato agli spettacoli diurni”. Così era, quando nacque, nel 1810, l’Arena, nel tempo diventata teatro e cinema notturno. Luogo dato allo spettacolo e alla serenità. Vorrei che chi ha cura del cittadino, della sua felicità (di happiness, cosí com’è scritto nella dichiarazione d’indipendenza americana) e della sua libertà si ponesse questo interrogativo: quale contributo dare, oltre a mascherina e vaccino. E poi non è forse una minaccia alla libertà personale trasformare gli italiani in un popolo di telespettatori in video, in streaming, sul web e smartphone? Fino a qualche tempo fa gli intellettuali di mestiere denunciavano la minaccia della videodittatura, oggi in tanti hanno scoperto, con gli Europei di calcio, i Giochi Olimpici e Paralimpici, la bellezza dello sport. In poltrona. E ovviamente si disinteressano delle Arene del Sole e della Luna. Per avere la coscienza a posto gli basta il Festival di Venezia.

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