Dopo la Mozzarella di Gioia del Colle dop, che ha visto per oltre due anni contrapposti i produttori della Campania e della Puglia, con tanto di governatori regionali in testa alle truppe, ecco un’altra disfida alimentare che vede impegnate e contrapposte le due regioni.
La disputa è sulla denominazione scelta dai promotori per tutelare il pomodoro pelato, prodotto esclusivo del Mezzogiorno, con il marchio comunitario IGP.
L’ANICAV, la più grande associazione di conservieri italiani, al termine di una concertazione con la Regione Campania e con le organizzazioni di categoria, ha proposto al Ministero delle Politiche agricole quella che era stata la denominazione utilizzata in passato e conosciuta in tutto il mondo e cioè “Pomodoro Pelato di Napoli”.
Chi non ricorda le bellissime etichette d’epoca sulle “buatte” (dal francese “boite”, scatola, uno dei tanti francesismi partenopei) di pomodoro, con tanto di Vesuvio sullo sfondo e la donnina con il cesto di “pummarole” rosse come il fuoco ?
Come tutti sanno, il Pelato, come prodotto trasformato, è nato nel secolo scorso proprio nell’area napoletana (andando a comprendere successivamente, nel dopoguerra, anche l’area industriale a nord di Salerno) e, commercialmente, in tutta Italia e soprattutto all’estero, era d’obbligo richiamare la Città del golfo, un valore aggiunto che contribuiva ad esaltare l’origine del prodotto, con tutte le suggestioni ed emozioni che la parola Napoli era anche in grado di suscitare: Napoli, spaghetti, pummarola e pizza, stereotipi ma anche simboli di italianità nel mondo.
Possono comprendersi, dal punto di vista tecnico ed agronomico, le ragioni dei pugliesi, che nel corso degli ultimi decenni sono diventati di gran lunga i maggiori produttori della materia prima, il pomodoro tipo allungato, per una serie di ragioni che qui non è il caso citare. Ma, al di là della scelta della denominazione, che in punta di diritto non fa una piega visto che era quella originaria e storicamente conosciuta dai consumatori e dai mercati, vi è l’interpretazione autentica dei regolamenti comunitari, l’ultimo il 1152/2012.
Come ha anche ritenuto il competente Ministero chiudendo l’istruttoria dell’istanza di riconoscimento, essendo la denominazione proposta relativa ad un prodotto trasformato, per il quale la norma europea ritiene che la denominazione debba essere relativa al prodotto da certificare (il pelato) e non alla materia prima di cui è composto, per le IGP (Indicazione Geografica Protetta) è necessario che anche una sola fase del processo produttivo (la trasformazione appunto) sia fatta nell’area geografica interessata. E’ il caso, ad esempio, della Pasta di Gragnano IGP, o della Mortadella di Bologna IGP, eccellenze di punta del paniere tipico agroalimentare italiano, che nei propri disciplinari non declinano l’origine della materia prima, bensi si soffermano ad esaltare la lavorazione tradizionale e la unicità e peculiarità del prodotto da tutelare e commercializzare.
Se realmente vogliamo “salvare” il pomodoro pelato italiano, una unicità assoluta del nostro Mezzogiorno che purtroppo va perdendo quote di mercato, la filiera tutta del pomodoro delle regioni meridionali deve capire che solo con una denominazione accattivante e immediatamente riconoscibile potrà difendere il made in italy soprattutto all’estero. E questo vale per la Campania, il Molise, la Basilicata, l’Abruzzo e la stessa Puglia, laddove cioè si concentrano le industrie conserviere che ancora lavorano e producono il pomodoro pelato.
Nessuna forzatura o nomi di fantasia, la denominazione Napoli è quella originaria, impiegata per quasi un secolo, che ha contribuito a costruire la credibilità e la fama del nostro pomodoro e del “buon cibo italiano” nel mondo.