Appena iniziato il weekend, le notizie degli attentati in Asia, in Africa e in Europa hanno già fatto presagire un fine settimana di fuoco. Letteralmente. Partiamo dalla Tunisia, che torna ad essere nel mirino del terrorismo tre mesi dopo il massacro nel museo del Bardo. È il caso più discusso e commentato nelle ultime ore, quello dell’attentato su una spiaggia di Sousse (o Susa, che dir si voglia), agli ospiti di due resort di lusso, che ha provocato 38 morti e quasi altrettanti feriti, in prevalenza stranieri, com’era possibile immaginare. La prima sensazione che se ne può avere, a caldo, confrontando i due tragici eventi, è che gli occidentali non siano graditi. Poi c’è la Francia, dove un dipendente dell’impianto di gas dell’Air Products a Lione ha decapitato il proprio capo reparto e infilzato sul recinto del cortile la testa della vittima.
Nel Kuwait, invece, il luogo prescelto per la strage è nientemeno che un luogo di culto, una moschea sciita situata nel centro della capitale Madinat al-Kuwait (o Kuwait City); il bilancio è di 24 morti e una cinquantina di feriti, rivendicati dallo Stato Islamico che si è proclamato autore dell’attentato. Infine, la Somalia, dove una cinquantina di soldati del Burundi sono rimasti uccisi in un attacco ad una base dell’AMISOM (Missione dell’Unione Africana in Somalia) sferrato dal gruppo islamista terrorista Al-Shabaab. La seconda impressione che si può ricavare è che i tre continenti che affacciano sul Mediterraneo stanno diventando a poco a poco un posto sempre meno sicuro.
Non è un puro e semplice allarmismo che qui si vuole lanciare. Anche il Kuwait e la Somalia che sono geograficamente più distanti da noi meritano di rientrare nelle nostre preoccupazioni e riflessioni, al pari dei cittadini europei brutalmente colpiti sulle spiagge della Tunisia. I quattro attentati sembrano essere, infatti, quattro operazioni congiunte che, seppure compiute da gruppi diversi o da individui isolati, rispondono ad una sola vocazione che ha il nome di terrorismo. Non sembra essere neanche un caso che per gli attentati sia stato scelto un venerdì di Ramadan. Ormai è chiaro già da un pezzo che queste organizzazioni terroristiche che rispondono al nome di IS o Al Qaida e chi più ne ha più ne metta, vogliono impadronirsi del bacino del Mediterraneo, Medio Oriente compreso, e non soltanto dell’Africa settentrionale (ma anche centrale). E nella corsa verso quest’insano traguardo, vanno tolti di mezzo quanti più “infedeli” è possibile, sia che si tratti della sede di un giornale francese o degli studenti cristiani di un’università del Kenya.
Non è neanche una questione puramente geografica: lo Stato Islamico si avvale di una insistente e persuasiva campagna di reclutamento attraverso i social network, Twitter in primis, coordinata secondo precise linee guida che ne fanno una presenza quanto mai forte e invadente in rete. Per quanto lo staff dei social media possa chiudere gli account e censurare i feed incriminati, l’IS riesce a ricrearli con una tale velocità e determinazione che gli permette, di fatto, di non arretrare di un passo. La campagna via internet permette di avvicinare alla propria causa nuovi militanti sparsi in tutto il mondo, sempre più spesso anche europei, provenienti dalla Francia, dall’Inghilterra, pure dalla Cecenia e da altre parti del continente. Così il terrorismo arriva a un passo da noi, e la Somalia, il Kuwait, il Kenya di colpo non sembrano più tanto lontani.
Il presidente tunisino Essebsi ha dichiarato che la guerra al terrorismo non riguarda soltanto l’esercito e le forze di sicurezza, ma anche i cittadini. Cittadini che non devono essere soltanto africani o asiatici. Non importa se il terrorismo si fermerà sulle coste dell’Africa, anche noi, che stiamo dall’altra parte, non possiamo restare a guardare.