Pagine e pagine sui giornali a proposito di giustizia da una parte, e misericordia dall’altra. Così almeno in apparenza. Pare che chi chiede rispetto della verità sia contro la misericordia, e chi chiede misericordia sia contro la giustizia e la verità.
Cardinali di qua, e cardinali di là. I giornali fanno a gara a metterli in conflitto: in particolare ecco agitati pronti all’uso Kasper contro Mueller su vari “fogli”, e magari più o meno malintesi in un senso o nell’altro. Il tutto in attesa dei due Sinodi, ancora lontani…Una “panca” sulla quale ci sarà da “campare” molto per tanti che vedono il ring anche dove c’è semplicemente scambio di idee diverse, addirittura incoraggiato da Francesco, che ha voluto una apertura piena, in passato inaudita e persino vietata, alle domande di tutti, per preparare una risposta che valga per tutti, e rispetti sia giustizia che misericordia, ambedue essenza della rivelazione di Dio in Gesù Cristo.
La Comunione ai divorziati risposati
Prendo come esempio il tema, che pare scottante, del trattamento dei divorziati e risposati…Va detto con chiarezza che l’indissolubilità del vero matrimonio è dottrina della Chiesa perché è parola inequivocabile di Gesù. Su questo punto di dottrina nessuna mediazione è o sarà possibile. Il “mistero grande” dell’amore uomo-donna, che rivela nella sua dualità l’immagine somigliantissima del Creatore (Gen. 1, 26) confermato ed esaltato dalla parola del Signore è lì: punto di partenza di ogni dialogo all’interno della comunità ecclesiale.
E’ un fatto. Ma segue una domanda: questo comporta anche, inesorabilmente, che quando un matrimonio si rompe, per infedeltà di uno o di ambedue gli sposi, sia definitivamente risolto in negativo anche il problema dell’appartenenza viva dei due alla Chiesa, perché essi restano segnati inesorabilmente da quel “sì” pronunciato una volta e poi negato, al punto che pur facendo parte della Chiesa non possono assolutamente fare la Comunione, salvo confessione dei peccati, e in particolare di quel “peccato” capitale, e pentimento vero che non può che essere manifestato con l’interruzione di ogni successivo rapporto simil-matrimoniale? E’ pensabile una disciplina ecclesiale che abbia anche qualche sfumatura in senso positivo?
Certamente nella vita della Chiesa in 2000 anni qualcosa del genere c’è sempre stato: una via di uscita, p. es., con la richiesta di annullamento, o dichiarazione di nullità da parte di un tribunale ecclesiastico è uso ordinario, che restituisce anche la possibilità della Comunione eucaristica senza contraddire esplicitamente la parola di verità assoluta. Dal punto di vista storico una disciplina diversa, ufficialmente, c’è stata e c’è nelle Chiese-sorelle orientali non cattoliche, con condizioni e realizzazioni molteplici. Non è un particolare su cui non ragionare, per senso di responsabilità verso Dio e verso gli uomini fratelli, anche in tema di ecumenismo vivo.
Dal punto di vista strettamente pastorale, poi, è anche noto che spesso anche autori cattolici – penso ad un parere di Benedetto XVI nelle sue conversazioni pubblicate e note – hanno pensato ad una possibilità di diverso esito nel contesto di una conoscenza specifica di casi particolari con conoscenza della realtà da parte del “pastore”, che non fanno una norma, ma possono far intuire che il problema non è automaticamente risolto per tutti e per sempre.
Credo che una prospettiva di questo tipo sia quella presente anche nella relazione Kasper, svolta per incarico di Papa Francesco e a sorpresa da lui elogiata pubblicamente, anche se poi sappiamo che da altre illustri parti è stata ed è non solo discussa, ma aspramente contestata.
Qualche riflessione problematica
Difficile arrivare qui ad altre conclusioni, ma credo che qualche riflessione problematica possa essere possibile…
La lezione di Emmaus e quella dell’Ultima Cena
Domenica scorsa la liturgia ha proposto ai cattolici di rito latino la bellissima avventura dei “discepoli di Emmaus”, che sulla strada della rinuncia alla speranza in Cristo lo incontrano nelle sembianze di un viandante misterioso che mette in subbuglio il loro cuore, riscaldandolo di nuova speranza, e viene riconosciuto nel suo “spezzare il pane”. E’ – hanno scritto gli esegeti da secoli – una specie di seconda “Ultima Cena”, la seconda Eucarestia terrestre celebrata da Gesù stesso, ora risorto…
Ma se lo hanno riconosciuto dallo spezzare quel pane, allora è segno che alla “prima” Eucarestia, quella del giovedì Santo, c’erano anche loro. Anche loro, e chissà quanti erano con Gesù e i Dodici, quella sera. Pensabile che ci fossero Maria e le sorelle di Lazzaro? Pensabile, certamente…E allora Gesù aveva dato il “suo” Pane a tutti? Anche a loro? Pensabile, davvero!
Ma non basta: certamente Gesù ha dato il suo Pane anche a Giuda! Lo dice esplicitamente Giovanni nel suo Vangelo. E Gesù sapeva chi era Giuda, e cosa stava per fare…Gesù del resto ha dato quel Pane anche a Pietro, pur sapendo e dicendogli che cosa avrebbe fatto, per tre volte, in quella stessa notte…
Non solo: pensabile che tutti gli altri presenti a quella Cena fossero tutti senza alcun peccato? Pensabile, ma pensabile anche il contrario.
Gesù non ha rifiutato il suo Pane, e il suo sangue, a nessuno, quella notte! Certo quella era la notte di quel Pane, e per Giuda – sempre Giovanni pare scriverlo con misteriosa allusione (Gv. 13, 27) – fu come aver ceduto tutto se stesso al demonio.
Del resto è proprio così: l’Eucarestia è un atto fatale. Lo dice anche il celebrante principale nella liturgia latina, subito prima di comunicarsi, invocando la misericordia: “La Comunione con il tuo Corpo e il tuo Sangue, Signore Gesù Cristo, non diventi per me giudizio di condanna, ma per tua misericordia sia rimedio e difesa dell’anima e del corpo”. Lo dice anche San Paolo: “chi mangia indegnamente… diventa colpevole verso il Corpo e il Sangue di Cristo (…) e mangia e beve la propria condanna” (ICor. 11, 27-29).
E’ un caso serio, quello della Comunione dei peccatori non pentiti. Ma chi può giudicare davvero questa o quella richiesta di accesso alla Comunione? Se un cristiano, peccatore e conscio di esserlo, in una situazione nella quale non ha una concreta possibilità di riparare ad una situazione negativa che lo ha colpito, soprattutto se all’origine è la parte innocente, desidera accostarsi e chiedere la Comunione, chi – uomo come lui, peccatore come lui – ha l’assoluto potere di decidere per il sì e per il no?
Gesù ha dato quel Pane a tutti, anche ai due traditori, Giuda e Pietro, con esito che poi è stato diverso, ma che prima erano ambedue traditori, e forse Pietro ancora di più, non solo per le tre volte, ma per il diverso rapporto avuto con Gesù e la Sua scelta ad essere quella “pietra” (Mt. 16, 18)!
E allora? Allora vale la pena di dialogare, di interrogarsi senza asprezze reciproche, di attendere i due Sinodi in arrivo, e non solo sulla comunione ai divorziati risposati, ma su tutta la realtà in fermento della problematica della sessualità, del matrimonio, delle implicanze tra scienza, psicologia ed esistenza di fede nella Comunità ecclesiale…
Un pensiero particolare in tema di sessualità e matrimonio
Non posso concludere questa riflessione senza far cenno ad una problematica particolare, che riguarda la attuale disciplina vigente nella Chiesa Cattolica proprio riguardo al tema della comunione di divorziati e risposati…
Non credo di dire una cosa infondata se ricordo che spesso, tra i consigli dati alle coppie di divorziati e risposati, uomini di Chiesa dicono che sì, possono anche tornare a fare la Comunione, confessandosi con pieno pentimento e impegnandosi a vivere “come fratello e sorella”. La formula dice che in pratica è loro lecito volersi bene, convivere, scambiarsi affetto e delicatezza, doni e gioia di andare avanti nella vita anche all’interno della Comunità Ecclesiale, ma a quella condizione unica: niente unione coniugale!
Forse non ci si pensa, ma questo equivale a identificare tutta l’essenza del rapporto d’amore all’esercizio della sessualità propriamente coniugale. E francamente appare un eccesso! Credo che anche dal punto di vista di una visione equilibrata dei rapporti d’amicizia uomo-donna ridurre la sostanza di tutto ai rapporti sessuali è segno di un non perfetto equilibrio tra i beni in questione…Una concezione della sessualità ridotta al rapporto sessuale rivela forse gravi limiti della visione che a poco a poco si è imposta anche in ambienti di Chiesa, con conseguenze che oscillano tra sessuofobia e sessuomania, diversamente distribuite anche in ambienti ecclesiastici e di vita cristiana nella comunità.
Dire a due divorziati risposati che possono continuare a volersi bene, a convivere, a partecipare alla stessa vita quotidiana, agli stessi interessi religiosi, e culturali, e affettivi, e di lavoro, e tutto il resto della vita quotidiana, ma che là, in quell’ambito preciso e segnato da una linea di confine secco non possono inoltrarsi appare per lo meno problematico… Del resto è il problema complesso del modo di vedere la realtà del matrimonio, dei suoi “fini” non più gerarchizzati rigidamente come da S. Agostino in poi, sul quale il Concilio Vaticano II ha fatto un passo decisivo in avanti. Da allora 50 anni, pieni di domande, cui il doppio Sinodo dovrà almeno cercare di rispondere: in fraterno dialogo tra i credenti, uomini di Chiesa come ministri sacri, sposi cristiani anch’essi “ministri” del loro matrimonio, e senza attacchi o ring sui quali salgono via via cardinali, vescovi, teologi e giornalisti in cerca di scoop…