Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi (Cesare Pavese)
Napoli, 2 agosto 1935, ingresso carcere di Poggioreale. Un uomo magro, in manette, l’aria stanca, viene accompagnato alla matricola. Cognome Pavese, nome Cesare, 9 Settembre 1908, Santo Stefano Belbo, professione insegnante supplente. È solo al momento della lettura del capo di imputazione, immaginiamo, che l’agente di custodia di turno, la divisa grigia chiazzata dal sudore, alza gli occhi dal foglio matricola per vedere in volto il nuovo cliente,«pericoloso per l’ordine nazionale, per avere svolto a Torino e Milano attività politica tale da aver nuociuto agli interessi nazionali».
È stato arrestato il 15 maggio del 1935 a Torino, insieme ad altri 200 antifascisti, molti intellettuali, tra cui Giulio Einaudi e Carlo Levi, legati alla rivista “La Cultura” della quale Pavese è stato direttore sino ai primi dell’anno. Einaudi se la caverà con un’ammonizione, per altri, come Levi, le pene arriveranno sino a cinque anni di carcere.
Cesare Pavese arriva a Napoli solo di passaggio. La meta è Brancaleone, dov’è condannato a tre anni di confino. Proviene dal carcere di Regina Coeli, ha attraversato le stazioni di Roma e Napoli nelle ore più calde, accompagnato da due agenti di scorta e dagli sguardi invadenti della folla. I più crudeli, come spesso avviene nel caso di bambini. Una bambina, al suo passaggio, curiosamente spietata chiede: «Papà perché nelle manette non fanno passare la corrente elettrica?». Forse è questa voce che ancora gli rintrona la testa, o forse sono i quasi due mesi di carcere e la stanchezza del viaggio, ma l’ingresso non è affatto solenne, come si converrebbe ad un detenuto politico. Sulle scale del carcere, proprio all’altezza di un crocifisso, uno “stramazzo”, un inciampo o un giramento di testa, e giù, lungo disteso, manette, valigia e tutto. Se ci sia stata pietà, commiserazione o altro negli agenti non lo sappiamo. Ma un detenuto in transito non è qualcuno, o meglio qualcosa, a cui ci si “affeziona”. Né a lui è dato tempo, per conoscenze, per ricevere una lettera o disfare un misero bagaglio di qualche vestito, un paio di libri e una pipa.
In carcere, quasi sempre in isolamento, i pensieri di Pavese si sovrappongono, dai propri alunni, «senza di me perderanno tempo e si faranno bocciare», vanno alle donne, «se le donne mi cercano ancora al telefono vorrei sapere». Dopo mesi di incertezza, adesso ha appreso che l’accusa di cospirazione non dipende dalla rivista che dirigeva. Non è stata la letteratura la causa dell’arresto, ma una corrispondenza di cui era stato custode per amore, non per politica. Il suo primo amore militava in un’organizzazione comunista clandestina. Le lettere per lei, per questa comunista sovversiva, sono state le prove a suo carico. Pavese la chiama la signorina, « di’ alla signorina, scrive, che la ricordo sempre e anzi, nella situazione in cui sono, bisogna che me la ricordi per forza».
Pavese non voleva problemi, per poter dirigere la rivista, “La Cultura”, aveva ottenuto l’autorizzazione dal procuratore del re di Firenze, dove la rivista era edita. Nonostante si fosse dimesso da direttore nel gennaio del 1935, per lunghe settimane fu convinto che fosse la rivista la causa dell’arresto. È deluso dagli amici, «di alle conoscenze che sono state rilasciate che adesso tocca loro scolpar me, che non ho fatto nulla più che conoscer loro» e infastidito da parenti mediocri «è poi una vergogna che mi scriviate che per voi le giornate sono eterne. Come se le mie fossero di zucchero».
I primi giorni di carcere non sono facili. Poi quasi si adegua, ma il brutto della prigione è che «non si ha mai niente da dire nelle lettere a casa» che diventano esercizi sempre più difficili. Quel due agosto, prima di partire da Roma, Pavese è di umore nero. Lo testimonia una lettera di soli due righi indirizzata alla sorella, «Cara Maria, niente di nuovo. Aspetto sempre. Ho l’asma e voglia di crepare. Saluti». Pavese, sin dai primi giorni del suo arresto, ha con sé qualcosa, sfuggita a perquisizioni e censura. È una poesia, composta a memoria, nel carcere di Torino. per non perdere l’abitudine. Non appena dispone di un foglio e un lapis, l’invia alla sorella, accompagnata da una preghiera: «Tu mettila da parte e me la darai quando sarò uscito. Non è molto bella, ma è la prima che compongo a memoria e quindi mi pare lodevole».
Non è la prima sul carcere, ne ha scritte altre due e molte altre attendono al pubblicazione. Dal 1933 l’editore Solaria sta curando la pubblicazione di una raccolta di 45 poesie che vedrà la luce nel 1936. La poesia è senza titolo, il primo verso angosciante, «una breve finestra sul cielo tranquillo, calma il cuore: qualcuno c’è morto contento». Pavese la inserirà, modificata, all’ultimo nella raccolta, che seguirà con attenzione anche dal carcere, « e tenetemi informato delle mie poesie».
Pavese impara in fretta, non il regolamento, ma le regole, che variano da carcere a carcere. Impara che si può ricevere la biancheria ma non il cibo, che si può scrivere solo ai parenti ma che tutti possono scriverci, che sul conto i parenti possono versare dei soldi, che si può leggere, fumare e tenere la barba lunga, non i capelli, che una pipa si può comprare ma non si può ricevere, che la pelle comincia a impregnarsi di odore di tabacco che poi non va più via. Ci vuole poi ancora meno per imparare che in carcere per una sorpresa basta poco,una variazione sul menù, che non ci sia più la solita frutta, ma pesche, con un odore di vigna e di miele «che riempie la cella e rallegra le papille».
Ma al transito del monumentale carcere napoletano, il paradiso delle pesche è già finito, e non possiamo sapere quanti pensieri e sigarette, in questa tappa di una sera, abbiano accompagnato il sonno di Pavese, né se sonno c’è stato. Quel giorno Pavese non scrive, lo farà solo giunto a destinazione.
Sappiamo solo che questa notte non è trascorsa indifferente, che quella poesia, non bella ma scritta a memoria, verrà inserita nella raccolta con un titolo, che le da, insieme, forma e contenuto, Poggio Reale.
Poggio Reale
Una breve finestra nel cielo tranquillo
calma il cuore; qualcuno c’è morto contento.
Fuori, sono le piante e le nubi, la terra,
e anche il cielo. Ne giunge quassù il mormorio
i clamori di tutta la vita.
La vuota finestra
Non rivela che, sotto le piante, ci sono colline
e che un fiume serpeggia lontano, scoperto.
L’acqua è limpida come il respiro del vento,
ma nessuno ci bada.
Compare una nube
soda e bianca, che indugia, nel quadrato del cielo.
Scorge case stupite e colline, ogni cosa
che traspare nell’aria, vede uccelli smarriti
scivolare nell’aria. Viandanti tranquilli
vanno lungo quel fiume e nessuno s’accorge
della piccola nube.
Ora è vuoto l’azzurro
nella breve finestra: vi piomba lo strido
di un uccello che spezza il brusio. Quella nube
forse tocca le piante o discende nel fiume.
L’uomo steso sul prato potrebbe sentirla
nel respiro dell’erba. Ma non muove lo sguardo,
l’erba sola si muove. Dev’essere morto.
Cesare Pavese,
(Le poesie, Einaudi, Torino, 1998, pag. 62)