Qualche giorno fa il quotidiano “La Stampa” ha pubblicato i dati forniti dal ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca sui laureati con lode degli atenei italiani. Ne è venuta fuori un’Italia dove oltre un terzo dei suoi dottori eccelle nel percorso di studi ottenendo 110 e lode. Nel 2013 infatti 4 studenti universitari su 10 si sono laureati con la formula del cum laude, anche se con differenze di rilievo tra le diverse aree geografiche. Nel Nord Ovest la lode è stata attribuita al 28% degli studenti, nel Nord Est al 32% di loro, al Centro 110 e lode per il 42% dei laureandi, al Sud per il 44%, mentre in Sicilia e Sardegna la percentuale sale a un clamoroso 50%.
Nella valutazione della doppia tesi di laurea prevista dal 3+2, che in qualche caso alla triennale è stata abolita del tutto o solo per la parte relativa alla discussione, ogni università può disciplinare autonomamente la determinazione del voto di laurea e i criteri per l’attribuzione della lode. Ma prima di puntare il dito contro le università del Sud e dell’isole, i cui docenti sarebbero più indulgenti e dove regnerebbe la cattiva prassi di dopare i voti nella speranza di intercettare una quota più ampia dei finanziamenti previsti, andrebbe chiarito (cosa che l’articolo de La Stampa non fa) se i dati sono relativi o assoluti. Altrimenti sulle differenze tra aree geografiche a intervenire sarebbe la variabile del diverso numero di laureandi che, vista la fuga dagli atenei del Sud registratasi negli ultimi anni, giustificherebbe una maggiore incidenza di chi eccelle sul dato finale.
Emerge poi la non rispondenza tra le percentuali delle lodi assegnate alle triennali e quelle ottenute alle specialistiche: i dottori triennali sono premiati con la lode nel 16,64% dei casi nelle isole e un po’ più del 10% nel Nord-Ovest, mentre la media nazionale si attesta sul 12,55%. Questo trend sembra dirci che gli studenti delle triennali tendono ad affrontare il ciclo di studi di primo livello senza l’assillo della qualità dei voti. Diverse le motivazioni che potrebbero giustificare un simile atteggiamento. Innanzitutto, la scarsa attitudine allo studio di molte matricole che arrivano all’università non adeguatamente preparate dalla scuola superiore e prive di un metodo di apprendimento valido con un duplice effetto (fatte salve le eccezioni): ci si imbatte in una fase di rodaggio in cui non si ottengono risultati brillanti pregiudicando la media finale; si è costretti ad accettare anche voti bassi per non perdere tempo.
Un’altra possibile motivazione, infatti, è la necessità di finire quanto prima, cosa non scontata visto i 700mila studenti fuoricorso in Italia. La riforma dell’Università partita nel 1999 e modificata nel corso degli anni con piccoli e non sempre efficaci aggiustamenti, non ha fatto altro che allungare i tempi di conclusione del ciclo di studi universitari e ritardare l’ingresso effettivo nel mondo del lavoro. L’ansia di concludere sarebbe quindi una possibile spiegazione della tendenza a non curarsi troppo del voto finale alla triennale, soprattutto da parte di quanti hanno intenzione di proseguire gli studi con la specialistica, visto che nel biennio non si tiene conto dei risultati conseguiti nei tre anni precedenti. Spesso poi i professori delle specialistiche sono stati già incrociati alla triennale e questo crea un rapporto tra docenti e studenti meno formale e più “benevolo”: uno dei limiti della riforma 3+2 infatti è proprio quella di aver spezzettato gli insegnamenti e moltiplicato le materie con programmi che si sovrappongono e risultano ridondanti. Lo aveva denunciato anche la Corte dei Conti nel 2010.