DOP, IGP, DOC, DOCG, sono acronimi ormai per tutti diventati familiari e che associamo convintamente alle produzioni tipiche di eccellenza. Quando li leggiamo sulla confezione di un prodotto o sull’etichetta di una bottiglia ci sentiamo rassicurati, perché essi legittimano la qualità e l’origine geografica di quel prodotto del nostro territorio.
Vogliamo mettere in discussione o criticare la qualità di un prodotto, magari a tavola con amici o familiari o anche scandalizzarci per il prezzo ? Per carità, ci viene detto da qualcuno sempre più esperto degli altri, è un prodotto dop, di eccellenza, scherziamo ?
Venticinque anni dal varo del primo Regolamento europeo che istituì il sistema delle denominazioni di origine -il famoso 2081/1992- hanno generato una moltitudine di esperti, o presunti tali, che si sentono in diritto di sentenziare, senza mai aver letto regolamenti, circolari, provvedimenti amministrativi giocati in punto di diritto sulla proprietà intellettuale e sui marchi collettivi. Pennivendoli improvvisati ed esperti prezzolati (sempre gli stessi) che ci inondano di articoli sponsorizzati e di post sui social, che devono dimostrarci sempre qualcosa, una presunta superiorità di un prodotto, spesso solo per giustificarne il maggior prezzo o per magnificare produzioni che di tipico hanno ben poco.
Quanto è buono il Provolone, sempre però che sia Valpadano, quello col marchio DOP. Esempio voluto e cercato, sul quale varrà la pena di tornarci per un’operazione verità sulla reale origine del prodotto e della sua preparazione, quello evocato da Totò per capirci.
Ma vogliamo veramente discutere su quello che è accaduto in questi 25 anni ?
Prodotti di vera eccellenza, ma con volumi produttivi e fatturati modestissimi, e prodotti di grande reputazione e con numeri imponenti, più da grande industria che da fattoria agricola. Tutti insieme appassionatamente, con un’unica procedura di riconoscimento e registrazione, quella imposta dagli euroburocrati per intenderci, senza sconti per nessuno, o quasi. Qualcosa non quadra, lo dicono in molti, ma il sistema è sempre quello, nonostante due revisioni regolamentari.
Sì, perché da quando è stato fiutato il business delle dop da parte dei grandi player dell’agroalimentare, il sistema ha fatto passi da gigante presso i consumatori, che nei primi anni si limitavano a chiedere se igp, dop e doc volessero dire la stessa cosa. Ed ecco che le multinazionali sono loro ora che alimentano il sistema dei marchi e un bollino in più sulle confezioni fa sempre bene, soprattutto se utilizzato come strumento di marketing internazionale per trainare prodotti aventi già un bacino di mercato considerevole ma che devono dimostrare anche tipicità ed origine, perché questi sono vocaboli che tirano sulla rete.
Quando la richiesta di registrazione della Melannurca Campana IGP era già a Bruxelles da un paio d’anni, arrivò, negli uffici preposti della Commissione, la proposta di riconoscimento della Mela Val di Non DOP (dico DOP) che scavalcò, per incanto e in un baleno, la nostra Orcola, la brutta mela, tutto perché Casa Melinda, avendo deciso di investire anche sui marchi a denominazione di origine, aveva l’esigenza di comunicare al mondo dei consumatori (negli spot ma anche nei cartelloni stradali 6×3) che la prima mela europea a marchio dop era quella trentina. Quello che fa sorridere, ancora con una punta di amarezza, è la piattaforma varietale riconosciuta: sei cultivar americane, tra cui la Golden, a dimostrazione dell’assoluta tipicità di una grande mela. Bravi, settepiù!
Sulla spocchiosità e sulle decisioni dei Servizi della Commissione europea esiste un campionario degno di Striscia la Notizia. Per citare solo qualche caso che ha riguardato le produzioni tipiche campane, si può ricordare quanto avvenne per l’Albicocca vesuviana IGP nel 2009, archiviata per “difetto di storicità acclarata della denominazione”, mettendo in discussione quanto affermato nel Simposio internazionale sull’albicocco, tenutosi in Italia nel 1989, che indicava l’area vesuviana come “il più tradizionale e produttivo bacino europeo della coltura”. O, nello stesso periodo (ministro delle politiche agricole Luca Zaia, un vero difensore delle tipicità meridionali…), l’archiviazione della Noce di Sorrento IGP, denominazione ritenuta generica e utilizzata come tipologia commerciale e quindi non registrabile, come l’altra denominazione campana, il Salame di Napoli. Povero paniere campano: partirono in 50, ne sono tornati “ancora in vita” in 23, un bollettino che ricorda la prima guerra mondiale.
E poi c’è il capitolo delle certificazioni, cioè del vero utilizzo da parte dei produttori e trasformatori del marchio in etichetta, che misurano il peso specifico delle singole dop e igp. Dati impietosi, meglio non riportarli, per alcuni da prefisso telefonico. Quasi 200 le dop/igp italiane, ma a fare numero di quantità e fatturato saranno una trentina. Sempre perché il sistema è unico, i costi sono alti, soprattutto per le microdop, quelle che avrebbero i maggiori diritti di chiamarsi tali.
Senza parlare del rapporto tra associati all’interno dei Consorzi di tutela, gli organi cioè cui compete la vigilanza sull’uso dei marchi ma anche sulla loro promozione. Le assemblee condominiali sono al confronto tavoli monastici. Il risultato ? si litiga per la gestione, ma di strategie e iniziative di valorizzazione nulla o quasi.
Tre regolamenti europei non sono bastati a risolvere un aspetto che è alla base della tutela e valorizzazione di un prodotto realmente tipico. Non possono convivere nello stesso sistema di regole e procedure il Prosciutto di Parma, con la carne proveniente dall’estero e il Fagiolo di Sarconi, con tutto il rispetto per la ridente cittadina lucana. Vanno tutelate entrambe, ma con strumenti diversi. Altrimenti, meglio registrarsi un marchio collettivo privato tra tutta la platea dei produttori/trasformatori della filiera. Almeno si risparmia sui costi.
Rimane l’amarezza nel ricordare che nei lavori preparatori e nei “consideranda” del Regolamento che istituì i marchi, il 2081/92, si giustifica il provvedimento al fine di tutelare l’immenso patrimonio vegetale ed animale delle regioni meridionali europee (il Regolamento fu fortemente voluto da Italia, Spagna e Francia), che senza strumenti di tutela e di promozione era destinato ad estinguersi.
Il primo tagliando, dopo i primi venticinque anni, però, rimanda le istituzioni alla revisione del sistema, almeno ad sua una messa a punto, altrimenti dell’immenso patrimonio resterà solo il ricordo. Sull’argomento ci ritorneremo.
Italo Santangelo