Qui ed ora

Verso le elezioni Regionali del 2015

di Massimo Adinolfi

 

Cominciamo dai numeri. Stefano Caldoro è stato eletto nel 2010 con il 54,25% dei voti. Il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, candidato del centrosinistra, prese il 43,04%. Alle politiche del 2013 il centrodestra ha preso invece il 35,62%, contro il 26% del centrosinistra. Quanto ai Cinque Stelle, che alle Regionali avevano candidato Roberto Fico (l’attuale, impalpabile presidente della Commissione Vigilanza Rai) e preso meno dell’1,6 %, tre anni dopo, alle politiche, hanno superato il 20%. L’altro dato da richiamare è il voto più recente delle europee, tenutesi a maggio scorso. In questo caso, il dato più vistoso è rappresentato dal Pd, che in Campania arriva da solo al 36,1% (con un’affluenza però molto più bassa che alle precedenti politiche). Forza Italia è quasi al 24%, i grillini un punto dietro. Sulla scorta di questi risultati, e di una estrema volatilità del voto, certificata da tutti gli analisti, è difficile fare previsioni.

Se si potesse partire dal dato delle europee, il centrosinistra sarebbe nettamente in vantaggio: ma il bottino pieno fatto dal PdR – il partito democratico di Renzi, come lo chiama Ilvo Diamanti, per sottolineare la forte personalizzazione del voto di maggio – non è certo al sicuro, tanto più se il Presidente del Consiglio dovesse mantenersi fuori dalla mischia, lasciando la partita nelle mani dei candidati regionali.

La legge elettorale, d’altra parte, assegna un ruolo decisivo alla figura del governatore, che viene eletto direttamente dai cittadini, e però con il premio di maggioranza alle liste collegate esalta il potere coalizionale delle liste maggiori. Pari a patta, si potrebbe osservare: al momento, in effetti, è il centrosinistra a vantare un maggiore potere di attrazione sulle liste minori (a cominciare dall’Udc, che potrebbe essere decisivo); d’altro canto, però, è il centrodestra ad essere davanti – almeno presso l’opinione pubblica – nell’indicazione del futuro governatore. Caldoro si ripresenta, infatti, e può contare su un elevato indice di gradimento, come risulta dalla classifica del Sole 24 ore, che lo colloca al terzo posto tra i Presidenti di Regione (dietro soltanto a Nicola Rossi, Toscana, e a Luca Zaia, Veneto, entrambi ricandidati con ampie possibilità di riconferma). Il centrosinistra è, invece, ancora in alto mare nella scelta dello sfidante.

Veniamo così al punto. Al momento in cui scrivo, nulla o quasi si sa delle Primarie che dovranno incoronare il candidato del centrosinistra. A quanto pare, è stata finalmente superata l’incertezza circa il se e il quando, ma su chi scenderà in campo l’incertezza, invece, regna sovrana. Manca, infatti, un elemento essenziale: chi si contrapporrà a Vincenzo De Luca, che vuole a tutti i costi la rivincita, dopo l’insuccesso del 2010? Nonostante i consensi mietuti in passato, De Luca, in realtà, ha già superato il punto più alto della sua parabola politica: difficile che riesca a salire più su. Con la decisione, presa all’indomani della sconfitta, di lasciare l’opposizione a Palazzo Santa Lucia e rimanere a tempo pieno alla guida della sua città, sembravano già allora ridimensionate le sue ambizioni. L’infelice esperienza di sottosegretario – poco più di una parentesi, segnata dalle polemiche per la mancata attribuzione delle deleghe – ha confermato la difficoltà di dialogo con il partito nazionale. Con Matteo Renzi siamo alle solite: dopo aver sostenuto l’amico Bersani, De Luca aveva cambiato campo e scelto Renzi nella sfida con Cuperlo. Ma nonostante il solito, larghissimo successo nella sua città, non ha affatto scaldato il cuore del segretario, poi divenuto premier. E si capisce: De Luca non ha mai amato correre sotto le insegne del suo partito. I suoi voti, lui ci tiene a dirlo, sono i suoi: punto e basta.

Così il sindaco di Salerno è di nuovo solo contro tutti, e la sua candidatura è frutto più dell’incapacità del Pd di trovare alternative credibili, che di un «affidavit» del partito. Peraltro, anche se i toni del tribuno salernitano sono sempre gli stessi – aggressivi, energici, persino drastici – una certa stanchezza si avverte, persino nella sua roccaforte: la vicenda del Crescent, l’enorme condominio aere perennius voluto da De Luca contro il parere di un pezzo di città e forse anche contro qualche regolamento, visto che si trascina tra ricorsi e carte bollate, e da ultimo l’incresciosa vicenda della processione di San Matteo, finita tra urla e fischi, che lo hanno visto addirittura contrapporsi alla Curia salernitana e al vescovo Moretti, dimostra che qualcosa rischia di rompersi finanche nel giocattolo salernitano.

Si dirà: bruscolini. Pagliuzze, a confronto della trave che il Pd ha ancora negli occhi. Il punto, infatti, è proprio questo: il centrodestra ha un nome sicuro, nonostante le fibrillazioni, nonostante le divisioni, nonostante la sorda guerra di Cosentino – o forse anche grazie a quella guerra, che toglie qualche consenso nelle zone in cui i cosentiniani sono radicati, ma permette a Caldoro di presentarsi come il volto pulito e affidabile dell’uomo di governo. Il centrosinistra, invece, no: non ha ancora trovato un punto di coesione. Come se dall’ombra lunga del bassolinismo non fosse ancora uscito: essenzialmente, per non aver saputo mai farne un bilancio sereno, e veritiero. Le rimozioni, infatti, in politica non aiutano mai. Così, in casa Pd, più per forza che per convinzione si affidano al passaggio obbligato delle Primarie. E non si capisce se serva a dare spessore all’incoronato, procurandogli più grande visibilità e una mobilitazione più ampia del perimetro dei partiti, o se invece sia solo l’espediente per sottrarsi a scelte difficili, che il partito non è in grado di fare. A volte le primarie producono un surplus di forza politica; altre volte, invece, fotografano una situazione di debolezza. Al momento, a parte la candidatura di bandiera della senatrice Angelica Saggese (ex area Letta), di sicuro c’è solo De Luca. La nouvelle vague renziana ha provato, con la Fonderia delle Idee, a lanciare – insieme a qualche proposta – anche un nome, che potesse interpretare il nuovo corso renziano. E magari meritarsi il tocco benedicente del premier. Quel nome però non è uscito e, forse, da Roma non arriverà nessuna benedizione. A Napoli, evidentemente, la retorica del vecchio e del nuovo non attecchisce. Non solo, però, perché De Luca tiene la scena pur regnando incontrastato su Salerno da un quarto di secolo, ma anche perché il nuovo appare decisamente velleitario.

Come se ne uscirà? Forse salendo su un autobus a Napoli, e chiedendo, come mi è capitato di fare, a qualche anziano signore dotato di un filo di ironia e di disincanto: «De Luca?». La risposta arriva con un sorriso fra il divertito e il rassegnato: «De Luca? Ma se Salerno non è nemmeno la metà del Vomero!». Un criterio un po’ approssimativo, invero, ma che chiarisce meglio di ogni dotta considerazione qual è il punto: va bene mettere in campo nuovi progetti e nuove idee, ma, quanto all’interprete, quel che ci vorrebbe – in una fase storica in cui il Mezzogiorno è scivolato via dall’agenda politica nazionale, e la questione meridionale è sentita non come un problema di tutto il Paese, ma come una vecchia, insopportabile litania – quel che ci vorrebbe non sono soluzioni di provincia, ma forza, consenso e autorevolezza per imporre in Italia e in Europa un’attenzione vera alle regioni del Sud. Napoli e la Campania possono pretenderla.

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