Quando si ragiona sulle normative che cercano di garantire la sicurezza negli stadi, è opportuno comprendere che ci si muove sempre nella ricerca complessa dell’equilibrio tra due fattori: da una parte il controllo di comportamenti devianti e potenzialmente pericolosi, dall’altra la garanzia dei diritti fondamentali dell’individuo. Non hanno infatti torto quegli intellettuali – come Ulrich Beck o Zygmunt Bauman – che ci ricordano sovente come la sicurezza e la libertà siano due principi che godono di un rapporto di proporzionalità inversa: il mondo più sicuro possibile è quello in cui l’ordine viene imposto e controllato dall’alto e poco o nulla è lasciato alla scelta autonoma dei comportamenti; all’estremo opposto, un mondo privo di vincoli all’azione libera potrebbe finire per mettere a repentaglio l’incolumità personale e la protezione da condotte dannose altrui.
A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge il fatto che un comportamento, sotto il profilo sociologico, è considerato deviante – o criminoso – quando avvertito come una condotta che in una specifica situazione si pone in contrasto con la morale che un gruppo si è dato (o, detto meglio, che la frazione dominante di un gruppo o di una società ha elaborato). Per questo, la percezione sociale di un pericolo o di un crimine diviene fattore determinante.
Non a caso, l’assetto normativo italiano in materia di sicurezza negli stadi ha avuto una storia articolata, fatta non tanto di un concepimento organico e strutturale, ma di continui aggiustamenti, sulla scorta soprattutto dell’onda emotiva che la cronaca – con il suo impatto mediale – ha spesso suscitato. Ne emerge un quadro in continua elaborazione, che cerca di mediare tra diverse istanze e che si pone come risposta all’urgenza – spesso eccessiva – con cui viene di solito rappresentato il problema .
I diversi interventi legislativi hanno nel complesso cercato di delimitare nel tempo un reato tipico da stadio, o da manifestazione sportiva, individuando caratteristiche specifiche del comportamento punibile e sanzioni conseguenti. Spesso con un inasprimento progressivo delle sanzioni stesse.
Le norme in vigore vietano, ad esempio, l’ingresso nei luoghi dove si svolgono gare sportive a chi porta con sé emblemi non consentiti, come nel caso di simboli politici illegali. Anche chi partecipa alle competizioni deve attenersi a questa disposizione. Ugualmente, non è consentito l’ingresso di striscioni o cartelli che possano incitare alla violenza o che esternino minacce o ingiurie. È possibile però lasciare simili oggetti all’esterno e non incorrere in sanzioni – che potrebbero essere corredate da pene accessorie, come l’obbligo di svolgere servizi sociali, l’obbligo di dimora in alcune ore determinate, la sospensione della validità di documenti per l’espatrio o il divieto di partecipazione alla vita politica.
Nel panorama normativo il dispositivo più risoluto – se non consideriamo l’istituto controverso e dall’esistenza in bilico della flagranza differita – è quello del DASPO: il divieto d’accesso ai luoghi in cui si svolgono specifiche manifestazioni sportive o a quelli interessati alla sosta, al transito o al trasporto di chi vi partecipa o vi assiste. Si tratta di una norma che colpisce chi – atleti compresi – si macchia di comportamento violento durante lo svolgimento di gare sportive o è incriminato per reati comuni connessi all’uso della violenza o affini. È una misura che, oltre a punire un comportamento colpevole, tende ad avere efficacia preventiva per la salvaguardia della sicurezza e dell’incolumità delle persone durante lo svolgimento delle competizioni. L’aspetto controverso, però, rimane il carattere esecutivo immediato, dettato da una logica di prevenzione emergenziale, che non aspetta la proclamazione di sentenze definitive e trascura sospensioni condizionali e patteggiamenti (cfr R. Massucci, N. Gallo – a cura di – La sicurezza negli stadi, Franco Angeli).
Prevenzione e controllo sembrano le parole d’ordine, come ben si evince anche dalla definizione della famosa tessera del tifoso, concepita per garantire maggiore conoscenza e controllo degli spettatori.
Pene inasprite – che comprendono la reclusione – sono previste poi per chi usa bengala, petardi e materiali imbrattanti (oltre a oggetti contundenti, mazze, lanci di bottigliette, ecc.) e per chi scavalca recinzioni o è protagonista di invasioni di campo. Nel caso di oggetti pirotecnici o simili, però, anche il semplice possesso diviene imputabile. Di nuovo una logica di prevenzione del pericolo che pone il sospetto su un utilizzo delinquenziale – più che un comportamento concretamente doloso – come fondamento della colpevolezza e della punizione. E che, sia detto per inciso, porta alla conseguenza spesso opinabile di eliminare preventivamente anche spazi e momenti di espressione e folclore non sempre deplorevoli. Si pensi, a tal proposito, al divieto di usare tamburi o strumenti tipici di un tifo appassionato ma pacifico.
Questi ultimi esempi, come quello del DASPO, rivelano come una legittima istanza di controllo e sicurezza non debba mai perdere di vista la salvaguardia dei diritti individuali, dalla presunzione di innocenza al diritto di espressione pacifica. Specie se l’eccezionalità della legislazione per reati connessi con lo sport rischia poi di diventare un ambito di sperimentazione in un’ottica di repressione complessiva.
Evento scongiurabile, ovviamente, che ci porta a considerare l’importanza di prevedere, per la sicurezza negli stadi, misure di accompagnamento alle disposizioni che abbiamo rapidamente trattato: lavorare sul piano educativo per le nuove generazioni di tifosi, coinvolgere e responsabilizzare i club sportivi nella gestione della sicurezza degli eventi, connettersi con il territorio – luogo di crescita di tutto il tifo, anche di quello organizzato – nel rispetto delle identità e dei suoi protagonisti, rendere lo sport un luogo di cittadinanza, di riscatto e di benessere sociale. Un impegno che è stato individuato dalle autorità competenti, ma che prevede ancora la profusione di energie ed interventi ulteriori da affiancare alla semplice azione punitiva della devianza.